Tonino Tognana: «Treviso deve tornare una città viva. Servono scelte, non slogan»
Dalla chiusura del bar Borsa alla necessità di presidi costanti, fino al ricordo del padre Aldo e alla sua carriera automobilistica: un ritratto che diventa analisi e proposta per il futuro della città: «Oggi i giovani non dialogano e la violenza nasce da qui»

La panchina sul Cagnan è ferma, come sempre. Ma davanti a Tonino Tognana non scorre solo l’acqua: scorrono nomi, volti, motori accesi e discussioni interminabili. Qui farebbe sedere gli amici, quelli con cui una volta si dava appuntamento senza bisogno di telefonate. Bastava sapere dove andare.
Geografie dell’anima
«A Treviso, una volta, le piazze erano geografie dell’anima – ricorda Tognana - . Piazza Borsa era il luogo di chi amava le auto, i rally, la meccanica raccontata come una vocazione. Piazza Indipendenza, al Biffi, era il ritrovo dei rugbisti. Mondi diversi, ma capaci di parlarsi, perché la città era un tessuto continuo, non un arcipelago di solitudini».
Il giro delle ombre era il collante di tutto. «Nanetti, Malvasia, Muscoli’s, la vecchia Colonna: tappe obbligate, più che osterie – le definisce - luoghi dove le passioni si mescolavano, le generazioni si incrociavano, e la conversazione era un esercizio quotidiano di appartenenza». È lì che Tonino ritrova la sua giovinezza e anche la sua età adulta: non come nostalgia, ma come misura di una città che sapeva creare comunità partendo da ciò che univa davvero. Tognana osserva la città di oggi con uno sguardo lucido, senza nostalgia sterile ma con la consapevolezza di ciò che si è perso.
«Oggi quella dimensione di compagnia è quasi scomparsa - dice - I ragazzi non si incontrano più per chiacchierare: comunicano attraverso i telefonini, vivono nelle chat e finiscono per pensare che il mondo passi tutto da lì. Un modo di stare insieme che, paradossalmente, isola, rende più individualisti e spezza l’abitudine al confronto diretto».
Incomprensioni e violenze
Con questa trasformazione, secondo Tognana, si perde anche qualcosa di più profondo: «La capacità di stare in compagnia, di prendersi in giro, di stemperare le tensioni con l’ironia». Così una battuta diventa un’offesa, uno sguardo una provocazione, uno spintone l’innesco di una reazione sproporzionata. Non è una colpa individuale, ma un vuoto culturale che finisce per alimentare incomprensioni e violenze, perché manca quel substrato fatto di relazioni, consuetudine allo stare insieme, capacità di ridere anche di sé. Questo è uno dei rarissimi momenti in cui Tonino Tognana ammette una forma di nostalgia...
«In passato questa città era semplicemente più vivibile – spiega - e non vedo nulla di irrealistico nel pensare che possa tornare a esserlo. I presupposti ci sono ancora, servono però scelte chiare, anche impopolari, e la volontà di portarle avanti senza farsi paralizzare dai pareri».
Eventi che non costruiscono
Sul tema della sicurezza è netto: «Alcune zone oggi sono percepite come fragili e questo incide sulla qualità della vita, sul desiderio stesso di vivere la città». Gli esempi arrivano uno dopo l’altro, legati a luoghi precisi. «I giardini di Sant’Andrea, la sera oggi vengono chiusi per evitare bivacchi e degrado: una misura necessaria ma che stride con il passato. L’area a ridosso di piazza Borsa è spesso occupata da gruppi di ragazzi con lattine in mano. Si è consumato uno degli errori più gravi: la chiusura del bar Borsa. Quel bar non era solo un esercizio commerciale. Era un punto di equilibrio, un presidio naturale. D’estate il plateatico animava la piazza, richiamava i trevigiani, teneva vivo lo spazio ogni giorno. Oggi, al suo posto, restano usi episodici: la pista di pattinaggio in inverno, il circo in estate. Eventi che passano, ma non costruiscono. Perché una piazza non ha bisogno di attrazioni temporanee, ma di vita quotidiana, di persone che la attraversano, la abitano, la riconoscono come propria».
È da qui che nasce la sua convinzione: la città può tornare più sicura e più viva. In questo senso non nasconde di guardare con favore a soluzioni già adottate in altre fasi storiche: «La presenza dei militari a presidio del territorio: non come simbolo, ma come strumento concreto di deterrenza e di rassicurazione».
Il padre Aldo
Seduto sulla panchina, Tonino Tognana torna con il pensiero anche al padre Aldo. Un uomo che aveva visto Treviso ricostruirsi mattone dopo mattone nel dopoguerra, nato all’indomani della Prima guerra mondiale e cresciuto in un tempo in cui c’era tutto da fare e tutto da inventare. «In quegli anni — racconta — bastava lavorare con serietà perché un’attività trovasse il suo spazio: il mercato c’era, la domanda pure, e le fabbriche erano prima di tutto luoghi di relazioni, quasi famiglie allargate». È anche per questo che Aldo Tognana soffrì quando, dagli anni Ottanta in poi, la delocalizzazione cominciò a diventare una necessità.
Il confronto
«Mandare a casa persone che avevano condiviso vent’anni di lavoro non era una scelta economica: era una ferita – racconta - Una ferita che, in parte, toccò a me affrontare, pur tra mille resistenze, per garantire la sopravvivenza dell’azienda». Quella stessa idea di responsabilità verso la comunità si rifletteva anche nel suo modo di pensare la città. Quando Aldo Tognana si candidò a sindaco nel 1994, sfidando Giancarlo Gentilini, lo “sceriffo” destinato a vincere, Tonino ricorda un confronto acceso ma tutt’altro che ideologico.
«A distanza di anni - dice - le differenze tra i due erano meno profonde di quanto apparisse: entrambi convinti che Treviso dovesse restare una città aperta, sì, ma capace di difendere la propria identità». Oggi, però, Tonino Tognana avverte un distacco crescente. Non tanto nelle idee, quanto nella partecipazione. «I trevigiani — osserva — raramente scendono in campo in prima persona. Non manifestano, non si espongono, lasciano fare. È un tratto culturale che pesa, perché senza coinvolgimento diretto nessuna visione può davvero diventare progetto condiviso».
La carriera
Lui stesso non si è mai sentito un uomo da associazionismo o da politica attiva: il lavoro in fabbrica assorbiva ogni energia, e il tempo libero era tutto per lo sport e per le automobili.
Una passione che non è mai stata un semplice hobby, ma una parte identitaria della sua vita. Dai rally — dove è entrato nella storia come unico pilota ad aver vinto con la Ferrari 308 — fino al ruolo di testimonial chiamato direttamente da Maranello, le auto rappresentano per lui un filo rosso che lega passato e presente. Nel 2025, anno del cinquantesimo anniversario della 308 GTB, Ferrari lo ha voluto protagonista di incontri e conferenze, dal Royal Automobile Club di Londra fino a Maranello.
E quasi naturalmente, quel cerchio si è chiuso con l’acquisto di una 308 del 1980: non un simbolo da esibire, ma un pezzo di storia personale da vivere, guidare, sentire.
Scelte, non slogan
«Mi diverto ancora – confessa - le gare di regolarità non fanno per me. Io sono fatto per tenere giù il piede, non per fermarmi al centesimo di secondo». E poi conclude: «Treviso non ha bisogno di slogan, ma di scelte: decisioni chiare, anche scomode, capaci di restituire spazi, relazioni, sicurezza. Perché una città resta viva solo quando trova la forza di scegliere, senza paura di farlo». —
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