Tra polvere e registri antichi, Gabriele cerca le radici delle famiglie venete
Gabriele Giusto, genealogista veneto, racconta come dagli archivi polverosi e dalle parrocchie si ricostruiscono le storie di intere famiglie, fino al Rinascimento

Immerso per ore fra antichi registri di parrocchie e archivi di tutta Italia, Gabriele Giusto riannoda i fili delle storie familiari. Si parte dall’atto di nascita dell’avo o quanto meno dal documento anagrafico più certo di cui si è in possesso, per poi salpare in un viaggio a ritroso nei secoli con approdi molto spesso sorprendenti. Storico di formazione, Giusto è un genealogista.
Uno dei pochi attivi nel Nord Italia. Che si tratti di curiosità, passione o di meno romantiche questioni ereditarie, Gabriele aiuta chi si rivolge a lui a rispondere a quelle domande ultime sull’identità: Chi sono io? E da dove vengo? Chi si rivolge a lei e perché?
«Si varia dagli appassionati di storia familiare a discendenti di italiani all’estero che desiderano riprendere contatto con le proprie radici».
Lei come ha iniziato?
«Ho iniziato per curiosità, per ricostruire la mia storia familiare. La prima ricerca e quindi non la migliore per come è stata eseguita. Una passione stimolata dai racconti di mio padre e poi coltivata all’università con gli studi storici, cui ha fatto seguito la specializzazione in storia familiare».
E così l’approdo alla genealogia. Quando è diventata un lavoro?
«Circa sei anni fa, inizialmente promuovendo la mia attività in siti specializzati in genealogia, poi, avviato il volano, il passaparola ha fatto il resto».
Quello della genealogia sembra un mondo strutturato, eppure poco conosciuto.
«Lo è e in Veneto è particolarmente rilevante, penso ad esempio al progetto regionale dedicato al turismo delle radici, in collaborazione con il ministero, per cui sono stato scelto come il genealogista di riferimento. Il settore è vario, comprende anche chi lavora in modo amatoriale ma al netto di queste persone i professionisti sono pochi. Nel Triveneto si contano sulle dita di una mano».
Come si svolgono e quanto durano le sue ricerche?
«Si parte dai dati certi, una carta d’identità del bisnonno, data e luogo di nascita dell’avo e poi si va a ritroso attingendo dagli atti dei Comuni, dai registri delle parrocchie e dei tribunali. Una ricerca non dura meno di sei mesi, anche se dipende da quanto a fondo si desidera andare. Ai tempi dell’intelligenza artificiale quello del genealogista resta un lavoro imprescindibile dal contatto con la carta, ad eccezione di alcuni archivi, come quello di Trento o Vicenza, che hanno digitalizzato i documenti. E poi c’è il fattore tempo, tanto tempo. Non si può prescindere dalle ore (anche sette di fila) con il naso nei registri».
Domanda meno romantica, ma d’altronde nella vita tutto ha un prezzo. Qual è quello della ricerca delle proprie radici?
«La media per una ricerca standard al 1600 è tra 600 e mille euro; diciamo che le ricerche vicine, con solo catene padri-figli e fino al 1800, possono costare anche meno di 150 euro. Poi c’è chi vuole approfondire parecchio e si va a crescere, ho ricerche che vanno avanti da anni e che di conseguenza sono costate qualche migliaio di euro».
Questo escludendo i costi di accesso ai registri dei Comuni. È cambiato qualcosa sull’onda del boom di richieste di cittadinanze che ha riguardato da vicino molte amministrazioni nella Marca?
«All’inizio di quest’anno una legge ha ammesso la possibilità per i Comuni di richiedere un contributo fino a 300 euro per la ricerca e l’emissione di certificati di atti che hanno più di cento anni».
Quando indietro si può arrivare in una ricerca?
«Nelle parrocchie si può arrivare fino al 1600 e dunque al periodo successivo il Concilio di Trento che introdusse l’obbligo per i parroci di compilare e conservare i registri su cui erano riportati battesimi e matrimoni. In passato c’era maggiore diffidenza ma oggi per fortuna le diocesi sono più propense a aprire gli archivi. Consultando i registri notarili e con un po’ di fortuna si può arrivare fino al ’400».
Che sensazione dà l’essere a tu per tu con volumi che magari non vengono consultati da secoli?
«È molto appassionante, soprattutto quando sei la prima persona ad aprire un volume rilegato con lo spago due secoli fa e mai più sfogliato da allora. Gli archivi che sì, non nego essere spesso vetusti e impolverati, sono anche luoghi di grande fascino e non dimentichiamo che sono pubblici, consultabili da chiunque nutra interesse per il passato».
Quali sorprese riservano le storie di famiglia?
«Un cliente di Aosta con ascendenze venete ha scoperto che il suo vero cognome si perdeva nel Cinquecento quando venne sostituito dal soprannome della famiglia, la “menda”, diffusa nelle piccole comunità».
Altri cognomi particolari?
«Quelli da cui si denota la discendenza da un orfanotrofio dove i trovatelli diventavano Colombo o Casagrande, come nel Trevigiano, e Proietti, Diotallevi, Esposito come d’uso in alcune zone dell’Italia meridionale. Se il padre non c’era più talvolta si dava il nome della madre: è il caso di un cliente il cui avo era stato lasciato all’ospedale di Treviso e poi affidato ad una famiglia di Castelfranco dove il cognome si è diffuso negli anni».
Perché secondo lei è importante tracciare la propria storia familiare?
«Perché l’uomo ha bisogno di identità e di riconoscersi nel mondo. Ciò lo rende più aperto e capace di accettare l’altro. Conoscere le proprie radici dà consapevolezza offrendo un valido antidoto agli accessi e a quanti millantano di voler difendere identità non ben identificate».
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