Fabio Barchitta, da pilota a stratega (e manager) del motorsport mondiale

Ex pilota, oggi manager e consulente di marketing per team e sponsor in MotoGP e non solo. La storia di Fabio Barchitta, tra adrenalina in pista e visione d’impresa fuori dai box

Niccolò Budoia
Fabio Barchitta
Fabio Barchitta

Il sogno di diventare un pilota del Motomondiale nella classe regina della 500, il lavoro per salire su una moto ufficiale e scrivere la storia dello sport. Poi un incidente tremendo a Hockenheim che gli rivela la faccia truce dello sport, una vertebra rotta, mesi di ospedale e la decisione che gli cambia la vita: rimanere in quel mondo, anche se sotto vesti diverse.

Fabio Barchitta vive a Zero Branco e da lì gestisce la neonata Barchitta Sport Marketing, l’azienda erede della FastBack che ha contribuito alla fortuna del motociclismo mondiale con l’ingresso di partner di rilievo come Morellato, RCH e Belstaff consentendo a piloti e team di brillare. Barchitta ha un libro con tutte le foto e i ritagli di giornale del suo periodo da pilota, quando ha vissuto il sogno: «Ogni tanto lo sfoglio. Sono bellissimi ricordi», racconta lui, 63 anni.

Barchitta, come ha iniziato?

«Avevo 18 anni, era tardi perché i miei non volevano assolutamente. Andando in montagna ho capito che mi piaceva e che avevo talento, poi è arrivata la pista».

E com’è stato?

«Un trauma. Potevi tagliare le curve, staccare tardissimo. Le velocità erano altissime. Il giorno dopo la maggiore età sono andato a correre al Mugello, quindi mi sono iscritto al Trofeo Laverda. Mi hanno notato e mi hanno aiutato».

Com’era correre in quegli anni?

«Avevo una squadra di 5 o 6 persone, venivano tutte dai paesi attorno a Mirano e Salzano. Abitavo lì, nell’officina miranese di Adriano Niero mi sistemavo la moto. Sceglievo la squadra, selezionavo meccanici e tecnici. Ero pilota e team manager, ora è impensabile».

Fabio Barchitta
Fabio Barchitta

Il territorio rispondeva?

«Ero l’unico, c’era risposta eccome. Correvo contro delle leggende: Kevin Schwantz, Wayne Gardner, Randy Mamola, Eddie Lawson, Michael Doohan. I migliori erano inarrivabili con le moto ufficiali, stavo sempre fra i primi dei privati».

Com’erano i paddock?

«Diversissimi da oggi, con roulotte e furgoni al posto delle hospitality. Si potevano correre gare spot, la Irta e la Dorna hanno dato più professionalità: è stata preferita la continuità per team e piloti, con la logistica organizzata dal promoter e non lasciata ai singoli piloti».

E la sicurezza?

«Correvamo in circuiti stradali fra le balle di paglia, ma anche i circuiti permanenti non erano paragonabili. Ricordo a Laguna Seca: prima del lungo rettilineo, l’ultima sinistra aveva il muro a bordo strada. Non c’era via di fuga».

Vi rendevate conto delle condizioni?

«Certo, e dove il pericolo era eccessivo alzavamo. Solo che dovevamo andare più forte nel resto del tracciato. Dopo le prime vittorie ho capito che stavo facendo la cosa giusta».

Poi l’incidente del 1989 a Hockenheim e il bivio: rifiutare le moto o non staccarsene. Perché la seconda?

«Era il mio mondo, non avrei potuto accontentarmi di un lavoro normale».

Cosa l’affascinava?

«L’adrenalina, ma poi le amicizie e i rapporti costruiti in tanti anni. I viaggi, lo scoprire posti nuovi, lingue nuove. Scambiare opinioni con i giornalisti faceva crescere molto, come non avrei potuto fare restando nel paesino».

Come ha continuato?

«Sul letto d’ospedale Ivano Beggio mi ha offerto un posto in Aprilia, da pilota o nel reparto corse. Mi sono occupato delle moto replica per i clienti di tutto il mondo».

Pensava di poter fare qualcosa di simile?

«Sì, mentre correvo facevo già il manager. Visitare le aziende e vedere i loro prodotti mi piaceva».

Fabio Barchitta con Enea Bastianini
Fabio Barchitta con Enea Bastianini

Poi Honda, ma come c’è arrivato?

«Vincemmo in Giappone e mi arrivò la telefonata. Restai in Aprilia dal 1990 al ’93, quindi in Honda dal ’94: mi occupavo di avviare i team satelliti. In dieci anni sono stato responsabile di vari team nel mondo, poi sono passato in Suter, in Gresini e nel 2006 mi sono messo in proprio come marketing manager».

Qual è stata l’azienda che le ha dato più soddisfazione?

«In generale quelle che hanno sfruttato appieno la sponsorizzazione: WithU organizzava i pranzi con gli amministratori delegati delle altre aziende del paddock per farsi conoscere, portava i bambini in gita scolastico nei paddock».

E altri?

«I veneziani di Morellato, poi Belstaff e la RCH di Silea. Tutti e tre hanno capito come muoversi. Non considero la sponsorizzazione come l’adesivo appiccicato sulla moto, mi piace l’attivazione dello sponsor».

E col territorio ha lavorato?

«Ci sono sempre stati tanti sponsor veneti, ho sempre cercato le realtà delle nostre zone e lo faccio ancora oggi».

E in questo periodo?

«Vedo una riflessione, non so se per l’incertezza del momento. La sponsorizzazione per me è l’organizzazione di tutte le attività che aiutano a fare business».

Ma c’è ancora interesse?

«Sì. Nella MotoGP oggi c’è Daiko con la Ducati Lenovo, c’è Came. Le aziende rispondono bene ma abbiamo un bacino eccezionale, con molto da scoprire e da spiegare. Ci credo molto, come quando correvo».

Pensa solo alla MotoGP?

«È il core business, ma mi sono appassionato anche alla Formula 1 per come fanno marketing. Anche l’Indycar offre grandi opportunità. Mi piacerebbe avere italiani da portare nello sport americano».

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Chi è

Fabio Barchitta è nato il 23 novembre 1961. Nel 1986 esordisce nel Motomondiale, dove due anni più tardi ottiene i suoi primi 12 punti iridati e il 21° posto finale in un campionato dominato dalle moto ufficiali.

Dopo il grave incidente del 1989 a Hockenheim, nel quale rimane gravemente ferito rompendosi una vertebra e ricorrendo a mesi di cure in ospedale, decide di restare nel mondo che più ama divenendo responsabile delle attività clienti prima di Aprilia, quindi di Honda.

A metà degli anni Novanta si mette in proprio lavorando nel campo delle sponsorizzazioni, contribuendo a rivoluzionare il settore.

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