L’oste inventore e il luna park senza elettricità: come nasce la magia dei Pioppi
A 88 anni, il fondatore Bruno Ferrin continua ogni giorno a saldare, progettare e sognare nuove attrazioni. In questa intervista racconta l’infanzia, la guerra, l’amore per Marisa, l’inizio dell’osteria nel 1969 e la nascita delle prime giostre

Un luogo che trascende la ristorazione per diventare un parco divertimenti unico, animato da giostre mosse dall'energia cinetica umana, senza elettricità.
È l’Osteria ai Pioppi di Santa Croce del Montello. Dietro questo capolavoro c’è Bruno Ferrin, che oggi, a 88 anni, continua a lavorare al parco come se fosse il primo giorno. Per una volta posa la saldatrice e ci accoglie di prima mattina, con gli avanzi di cibo in mano da portare agli animali. È stato appena gettato il cemento per la sua nuova opera e deve andare a incidere l’anno, “2025”, prima che si indurisca. Un rito che si conclude, dopo pranzo, con il classico caffè con la grappa, il “caffè di Bruno”.
Bruno Ferrin, da dove comincia la sua storia?
«Sono nato il 1° febbraio 1937, abitavamo lungo la Pontebbana, tra Castrette e Carità. I miei genitori si chiamavano Giovanni Ferin e Ines Brugnera. Quando sono nato, l’impiegato dell’anagrafe scrisse Ferrin con due erre: l’ho scoperto solo a scuola».
Ha fratelli o sorelle?
«Avevo un fratello, Giorgio, morto per la meningite. Io avevo 10 anni, lui 8. Non avevamo i soldi per acquistare la penicillina. Quando stavano per metterlo nella bara, gli ho baciato la fronte: era freddo come il ghiaccio. È stato uno shock, il trauma ha cancellato tutti i ricordi».
E la guerra?
«Ricordo il bombardamento del 7 aprile 1944. Sentivamo le bombe, vedevamo il fumo. Lungo la Pontebbana passò una ragazza ferita in volto, correva in bici e urlava “ci sono morti dappertutto”. Ricordo i rastrellamenti dei fascisti in un campo di frumento. Poi l’assalto dei partigiani a un camion di tedeschi che stava trasportando sale, che all’epoca era come oro, introvabile, e che venne distribuito a tutti. Ricordo l’aereo “Pippo”, di notte, lento e a bassa quota, e noi che mettevamo le coperte alle finestre. E il bombardamento di Ponte della Priula: c’era così tanta luce che si poteva leggere il giornale».
Ricorda la scuola e i primi lavori?
«Per arrivare alla terza media ho frequentato le serali. Nell’ultimo anno, però, sono stato rimandato a ottobre. Avrei dovuto presentarmi agli esami, ma mi sono dimenticato... Quindi divento e garzone in una torneria, ho lavorato in un negozio di alimentari, dove andavo a consegnare la spesa».
Poi si è arruolato?
«A 18 anni ho visto un cartellone della Marina e sono partito. Un anno a Taranto e poi 4 sui cacciatorpedinieri nel Mediterraneo. Quei 5 anni, però, sono stati l’inferno, la vita militare non fa per me».
Come ha conosciuto sua moglie Marisa, anche lei fondamentale Ai Pioppi?
«Ero imbarcato ed è arrivato un nuovo marinaio, Franco da Treviso. Abbiamo legato e mi ha mostrato la foto di famiglia. Vedendo sua sorella, Marisa appunto, ho pensato: “Ma che bella ragazza!”. Sono andato a conoscere i genitori di Franco e l’ho vista, mora e con la camicia annodata. L’ho corteggiata per un anno».
Come ha trovato un nuovo impiego?
«Sono diventato rappresentante di lieviti e farine per il pane. Partivo alle 4 di mattina con il furgoncino e andavo in giro. Ho continuato a lavorare fino al 1980, in parallelo con l’Osteria».
Ai Pioppi. Come nasce?
«L’Osteria è nata come secondo lavoro. Avevo il pomeriggio libero. Andando da Crocetta a Nervesa, avevo notato un pioppeto, volevo realizzare una frasca. Con il proprietario, Giulio Basso di Nervesa, mi accordai per 100 mila lire all’anno di affitto. Andai in Comune e mi concessero la licenza per un’osteria con cucina di quarta categoria, l’ultima. In mezzo ai pioppi installai una baracca in lamiera, piantai due tavoli con 4 pali e una piccola griglia, e appesi una luganega su un pioppo. Il primo giorno fu di domenica, il 15 giugno 1969. Vennero due ragazzi del posto, Franco e un suo amico: offrii loro due bicchieri di vino».
Che cos’ha di diverso?
«C’è un silenzio da ascoltare, questa è la mia vita. Il concetto che c’è ai Pioppi è che se si vuole raggiungere un obiettivo ci si riesce, con tenacia».
Quando ha iniziato la costruzione delle giostre?
«Nel ’72 ho acquistato il terreno, firmando una montagna di cambiali. Ero emozionato, per la prima volta ero proprietario di qualcosa. Ho voluto subito realizzare un’altalena per i figli dei clienti, non sapevo fare altro. Piantai 4 pali di cassia, ma mi servivano due ganci per le catene. Andai in un’officina a Giavera, verso Povegliano. Il titolare era impegnato, mi ha detto che potevo usare la saldatrice, non ne avevo mai visto una prima. Ho provato e, dopo un’ora, feci un gancio, il più bel gancio della mia vita. Lì si è accesa la lampadina».
La prima attrazione?
«Esiste tutt’ora nel parco vicino alla strada: uno scivolo di un metro e mezzo in ferro».
Come nasce una giostra?
«Prendo spunto dalla natura. Per esempio, una foglia che cade, gira e dondola. Inizialmente, per imparare a saldare, andavo da Girat al Dus. Poi sta nell’abilità di chi costruisce. Se mi dai in mano una penna, non riesco a fare nulla. Se mi metti in mano una saldatrice, invece... Uso in prevalenza materiale riciclato, vado a prenderlo dal ferrovecchio».
Quante giostre ci sono?
«Tra piccoli e grandi, abbiamo circa 50 giochi. In 56 anni abbiamo realizzato una media di un gioco all’anno. Per la prossima estate sto progettando un nuovo gioco: sarà un’altalena a 4 posti e alta 8 metri».
Ce n’è una a cui è più affezionato?
«Una giostra vale l’altra per me. Realizzo giochi per passione. La soddisfazione è il riscontro delle persone, se si divertono ho raggiunto il mio scopo. Ho svuotato il cassetto dei miei sogni. A chi viene qui dico sempre: credete nei sogni e di cercate di esaudirli. Usate la tenacia».
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