Matteo De Mayda, il fotografo che racconta oltre la cronaca
Matteo De Mayda, cresciuto nel quartiere di Santa Bona, ha cambiato la sua vita dopo un viaggio nel Sahara: «Ho seguito le Ong in Africa e vissuto l’allarme missili in Ucraina: serve delicatezza e analisi»

Racconto. È la parola che usa più spesso, quando la conversazione riguarda le immagini. Non il bello, non il pietismo, non lo choc o la nuda cronaca. Il racconto.
Matteo de Mayda, oggi fotografo di fama internazionale, ha investito su se stesso, scoprendo il talento e inseguendo un sogno. Si concentra su tematiche socio-ambientali, in dialogo con materiali d’archivio e approcci scientifici. E nelle sue foto c’è tanto, tanto racconto.
De Mayda, come iniziare?
«Il mio quartiere è Santa Bona, ho vissuto lì fino ai 22-23 anni, con i campetti, le elementari alla Carducci, poi per 10 anni sono stato a Fiera, vicino al Sile. Ma poi sono stato a Roma e Palermo, più che altro per amore, e ora sono a Venezia anche se mio legame con Treviso è fortissimo. La malattia di mia madre (che ha raccontato in “Brilla Sempre”, ripresa da Luca Bizzarri nel podcast, ndr) mi ha riportato a casa».
Roma, Palermo. Venezia. Una manna per le foto?
«Vivo i quartieri, quelli più periferici, come Santa Bona, con i loro limiti e i loro contrasti. Ciò mi arricchisce, c'è il bello e poi c'è anche molto brutto, sento di averne bisogno. Venezia, per un fotografo, è stata raccontata un milione di volte. Volevo provare a raccontarla in maniera diversa, niente San Marco e Rialto ma il racconto della laguna, dove c'è tanto spazio per uscire dagli stereotipi».

Usa il termine “racconto”. Come lo lega alle foto?
«Mio padre a 17 anni mi ha regalato una vecchia Reflex analogica, fotografavo gli amici, i concerti. Ma ho fatto un percorso da grafico, fino in un'agenzia. Usavo le ferie per andare in giro, con delle Ong. Una delle esperienze è stata con Informatici Senza Frontiere, cercano di ridurre il digital divide».
E poi?
«Dopo 6 anni ho avuto una crisi: basta agenzia, non mi riempiva, volevo investire su me stesso. Curriculum a Emergency. Era il 2011, stava partendo con il programma Italia, con gli ambulatori mobili per i migranti che lavorano nei campi. Quello è stato il mio primo racconto pagato come fotografo, tra infermieri, baraccopoli e gente in fuga dalla guerra. Con la liquidazione mi ero comprato l’attrezzatura...».
Ha investito su se stesso?
«Sì, ma all’inizio non è facile. Qualche lavoretto per sbarcare il lunario, ma volevo concentrarmi più sulla fotografia. Fino al 2017».
È lì che ha fatto click?
«Quel primo incarico è servito per farmi conoscere. All'inizio ho proposto tante storie che avevo in mente, quindi scrivevo ai giornali cercando di produrre delle storie».
Un esempio?
«La mia ex ragazza è andata a fare un corso di pasticceria secca nel Saharawi, tra il Marocco e l’Algeria, campi profughi da 40 anni nel deserto. Sono andato con lei, con la mia camera. La storia era talmente bella e forte che l'ho mandata in giro, il New York Times che l’ha scelta. Ma erano passati 6 mesi, quindi servivano immagini “fresche”, e mi hanno rimandato lì. Mi piacciono i racconti di migrazione, di associazionismo, ma non quelli per forza pessimistici. Si va lì da uomini bianchi che insegnano o impongono un modo di vedere. Serve delicatezza. Se all'inizio ero attratto dall'esotismo, da immagini dei posti pazzeschi, con persone diverse, negli anni ho cercato di trovare una dimensione un po' più riflessiva».

Un posto che le è rimasto le ha spezzato il cuore?
«Un anno fa sono stato in Ucraina, a Odessa, invitato da una Ong che lavora sui problemi post-traumatici della guerra. Eravamo protetti, giravo con auto blindate. Mi hanno fatto installare un'app che segnala l'arrivo dei missili, le sirene non bastano. Si è attivata quando ero in un ristorante, ma vedevo che nessuno faceva niente. Che fare? Scappare in un bunker o ricercare la normalità? Ho fatto come loro, mi sono adattato. C’erano tre allarmi al giorno, ma la gente continua a fare la propria vita. Il mare è pieno di mine antiuomo, ma la gente si faceva il bagno, voleva normalità. Sono stanchi della guerra, fanno la resistenza attraverso la quotidianità».
Più che la potenza, la riflessione nell’immagine? «Non mi piace il vittimismo, la ricerca di spettacolarizzare, è facile soprattutto in un paese dove ci sono delle persone in difficoltà o povere fare il ritrattone con la persona che sta male o in sofferenza. Quello che provo a fare è raccontare un po' la causa o la conseguenza della cronaca, per approfondirla. Come la formazione al carcere di Padova, con il laboratorio di pasticceria. È giusta la punizione fine a se stessa o ci sono delle formule per cui si può crescere, fare anche qualcosa per la società?».
Ha ritratto decine di personaggi importanti, uno su tutti Mario Draghi per il Time. Ci sono vip che ricorda con piacere?
«Divertente con Bobo Vieri, e la sua combriccola di allora con Ventola, Adani, Recoba... Un mondo molto distante dal mio e per quello molto curioso, non sono abituato a quel tipo di lusso. Ma entro in contesti diversi. Oppure l’Udinese, o la nazionale di basket per Sportweek. Esistono migliaia di foto degli atleti e dei loro gesti, ma meno nei contesti quotidiani».
E altri, oltre allo sport?
«Mi vengono in mente Andrea Crisanti durante il Covid, sembrava un eroe, e ora Willem Defoe e Luca Guadagnino. Era a Venezia per la Biennale, faceva anche il curatore di Homo Faber, come al solito ho cercato di preparare un po’ di situazioni con il mio assistente, un po’ fuori dagli schemi. Spesso gli entourage frenano su queste cose, lui si è catapultato dentro un labirinto molto particolare alla Fondazione Cini. Perfetto per l’estetica dei suoi film. Ma comunque dovevo chiedere a Guadagnino di entrare dentro una siepe... Ha capito subito quello che volevo fare. Attori e registi hanno certa consapevolezza del proprio corpo. E poi si inizia a raccontare».
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