Giorgio Fantin: «Treviso non è più quella di una volta, ma la porto ancora con me»
Sulla panchina affacciata sul Cagnan, l’architetto Giorgio Fantin rievoca la Treviso degli anni ’70: osterie, rugby, personaggi indimenticabili e una socialità perduta. «La città dovrebbe essere coccolata di più: servono rispetto, incontri, piazze vive»

La panchina affacciata sul Cagnan sembra un varco su una Treviso che non c’è più. Basta sedersi e, per un istante, ritornano le ombre di Treviso l’ultima, il libro cult che Giorgio Fantin , che oggi ha 88 anni, pubblicò nel 1977 con gli scatti di Francesco Moretti: volti, osterie e personaggi di una città che stava cambiando per sempre.
Una città ancora in bianco e nero, che oggi tutti rimpiangono e che nessuno potrebbe più raccontare allo stesso modo.
Il filo della memoria
A due passi da qui resiste l’Osteria Muscoli’s, baluardo di trevigianità schietta, dove si sorseggia ancora il Vin Fantin, leggero e chiaro come certi pomeriggi che lui ricorda da ragazzo.
È da lì che l’architetto Giorgio Fantin prende il filo della memoria: da un bicchiere, da una risata, da un nome. E quando si accomoda sulla panchina, accanto a sé immagina Paolo Camatta, anima del bar Beltrame, il luogo dove i giovani rugbisti si davano appuntamento prima di ogni avventura. «Lì – dice – passava la vita. E lì capivi cos’era davvero Treviso».
I volti
Per Giorgio Fantin, Treviso non è mai stata soltanto una città: è stata una piazza abitata da volti, rituali, legami. E molto di quel mondo ruotava attorno al rugby, lo sport che — dice — «ti tira fuori dal fango e ti insegna a dare la mano anche all’avversario».
Il primo a tirarlo letteralmente “fuori dal fango” fu Renato Bresolin, storico presidente dell’Ignis Treviso. Fantin aveva vent’anni, veniva dalle Fiamme Oro di Padova, portava sulle spalle due titoli italiani. Bresolin lo aveva visto giocare e gli aveva aperto altre porte: lo portava a teatro, a sentire le opere alla Fenice di Venezia.
«Voleva farci vedere altri mondi», racconta. E così, dal campo alla platea, la Treviso di quegli anni era un’educazione sentimentale continua. La sera, il punto di ritrovo era sempre lo stesso: il bar Beltrame, sotto i portici, regno di Paolo Camatta. “Bresolin ci portava tutti lì, “in piazza”, dove si mangiava, si discuteva, si scherzava. Camatta, prima braccio destro e poi erede dei locali del vecchio Beltrame, era uno di quei personaggi che fanno città: accoglieva tutti, offriva anche quando eravamo “in quattro gatti”, conosceva ogni storia, ogni volto. Con lui si parlava di tutto: di sport e della vita”, ride Fantin.
Ma era il rugby la cifra di quegli incontri: Giorgio viveva quello sport come una scelta di identità: «Mia mamma e mio papà dicevano che era lo sport de “lazaroni”… ma per noi era vita». Attorno a quel bar passavano figure che oggi sembrano uscite da una pellicola neorealista: Francesco Sartorato, mediano di mischia; Arturo Zucchello, mediano d’apertura, coppia che aveva vestito l’azzurro; il pilone Lucrezio Carnio, classe 1927, che portava casse al mercato; Cocco Armellin, unico con la macchina, che caricava tutti dopo le partite.
L’irripetibile umanità
Era il mondo che Fantin aveva fissato per sempre nel 1977 in quella che per molti resterà davvero Treviso l’ultima. Un titolo che era già un presagio: «Ero convinto che quella Treviso non si sarebbe più vista», dice oggi. I personaggi, i mendicanti, le botteghe, le strade: un’umanità irripetibile che, negli anni successivi, si sarebbe dissolta. Oggi Fantin guarda la città con lucidità e malinconia.
«Dentro le mura si dovrebbe essere felici», dice. E invece vede ragazzi che «vogliono solo dar pugni», vede spazi non più a misura d’uomo, vede la Treviso di una volta — quella dei giri di osterie, delle piazze riconoscibili, delle comunità — scivolare via. Ogni venerdì, però, continua il suo piccolo rito: tre osterie, sempre le stesse, con gli amici di una vita. Un modo per tenere accesa la brace di quella trevigianità che lui ha raccontato quando aveva quarant’anni. Di quegli anni ricorda anche i giri rituali nelle osterie: la Campanella, Nerina, l’Oca Bianca, l’Antico Pallone e il suo frizzantino indimenticabile. Un mondo scomparso, fatto di storie minime e di figure che oggi, dice, «non ci sono più».
Gli amici di sempre
Molte porte si sono chiuse: anche quel Biffi che era uno dei punti fermi della Treviso popolare. «È un pugno nello stomaco – ammette – perché quando sparisce un posto, sparisce un pezzo di vita». Gli resta il venerdì con gli amici di sempre: tre osterie, un bicchiere, quattro parole, quel poco che si può salvare.
Giorgio Fantin sorride quando pronuncia il nome di Paolo Camatta. Per lui non era solo un volto del passato: era un punto di riferimento, uno di quei personaggi che facevano piazza dei Signori il salotto buono della città, un luogo dove «si andava e si trovava sempre qualcuno».
Cosa serve oggi
La vera scuola, dice, era quella: la piazza. Lì le compagnie si formavano spontanee: quattro, cinque amici, poi altri tre che si aggiungevano, e la serata prendeva forma. Si parlava di tutto: sport, storie di città, amori, avventure di quartiere.
«Non esiste più quella comunicazione tra gruppi perché è il concetto del ritrovarsi in piazza che è venuto meno, oggi sembriamo degli sconosciuti», sospira Fantin. E davanti alla panchina, ammette che sarebbe bello ritrovare almeno per un istante lo spirito “piassarotto” degli anni Settanta. Se dovesse chiedere qualcosa alla città di oggi, direbbe senza giri di parole che servono più rispetto, più cura, più socialità.
«Questa città dovrebbe essere coccolata di più , dovrebbe ritrovare pezzi di storia che sono scomparsi, penso alle vecchie sagre: San Liberale, San Martino, Beato Enrico, così Treviso potrebbe ritrovare il suo antico affiatamento. Penso ad una Treviso che favorisca gli incontri con una pedonalizzazione più spinta che incentiverebbe la permanenza nelle piazze. Non siamo più trevisani perché non viviamo più la città con le sue piazze ed i suoi quartieri. E anche per questo siamo meno felici».
L’omaggio a giacomino
Eppure, nonostante tutto, Fantin resta legatissimo a Treviso. Si definisce «cittadino che tira la città a sé», come si farebbe con una cosa propria, preziosa, che non si vuole perdere. Dalla panchina sul Cagnan, con accanto Paolo Camatta, forse tornerebbe per un attimo quella Treviso autentica che lui fotografò nel 1977: una città che sapeva riconoscersi, raccontarsi, bere insieme, ridere insieme. «Oggi un libro come Treviso l’ultima sarebbe difficile da rifare – conclude Fantin - quei volti, quelle storie non ci sono più. Ma uno, forse, resterebbe da fotografare — Giacomino Benvegnù — perché in lui sopravvive un modo di voler bene alla città che abbiamo tutti un po’ smarrito». —
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