«Quello studio mi sfrutta» L’architetto condannato a versarle 142 mila euro
MOGLIANO
Sfruttata per tre anni nello studio dell’archistar moglianese, si appella al giudice del lavoro e ottiene un risarcimento di 142 mila euro. Storica sentenza del Tribunale di Treviso per una professionista moglianese che dal 2009 al 2012 ha collaborato, con partita Iva, a un blasonato studio di architettura cittadino.
Anche lavorando «con costanza e puntualità» (scrive il giudice Alessandra Pesci), facendo valere le competenze maturate con la laurea allo Iuav e attraverso le precedenti esperienze professionali, la giovane progettista non arrivava a guadagnare nemmeno 600 euro al mese (ferie escluse). Progettava plessi scolastici, piani di recupero, edifici residenziali, partecipava agli incontri con i committenti dello studio, rispettava i tempi imposti dal titolare (l’architetto E.Q.) ma a fine il reddito era praticamente di pura sussistenza.
La storia di questa giovane architetto moglianese, E.S., classe 75, potrebbe sembrare una delle tante legate al fenomeno delle “false” partite Iva degli studi professionali. Lavorano sostanzialmente come dipendenti, ma non vengono tutelati da alcun contratto e il compenso lo decide sempre il titolare. Quanto più lo studio è affermato e può vantare commissioni di prestigio, tanto più può giocare al ribasso. In questo caso però l’esiguo compenso ricevuto per il suo lavoro, 20,5 mila euro da settembre 2009 al luglio 2012, ha convinto l’architetto a chiedere giustizia in tribunale. Patrocinata dall’avvocato Primo Michielan, fondatore dell’omonimo studio moglianese, la finta partita Iva ha chiesto il risarcimento. Ottenuto anche un parere dall’ordine degli architetti di Treviso, che valutava il lavoro svolto dieci volte il compenso ricevuto, nel 2012 cita in tribunale il suo ex titolare. La sentenza arriva nell’aprile di quest’anno e condanna il noto architetto moglianese, patrocinato dall’avvocato Mario Giorgio Bergamo, a pagare un “arretrato” di 142 mila euro, più le spese legali (14 mila euro).
«Viene stabilito dal giudice» spiega l’avvocato Primo Michielan «che, diversamente dall’abitudine di taluni studi professionali di remunerare una tantum il proprio collaboratore, in assenza di specifici accordi, il medesimo deve essere congruamente remunerato dal suo datore di lavoro applicando il criterio a “tempo”». Più che il “decreto dignità”, fece, in questo caso, l'applicazione di una vecchia legge del 1949 che stabilisce una tariffa di collaborazione di 37,96 euro l’ora. Secondo E.Q, ricorso in appello, la sua collaboratrice avrebbe dovuto fatturare ai committenti esterni. —
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