Sara Cardin , la karateka di Treviso: «Voglio l’Olimpiade con tutte le mie forze»

TREVISO. L’8 novembre di tre anni fa si regalò l’oro mondiale a Brema, vittoria-copertina (finora) della carriera. Tra meno di tre anni, l’Olimpiade di Tokyo terrà a battesimo il karate. Che, nel caso di Sara Cardin, significherà inseguire la medaglia più bella. La campionessa vive una fase cruciale della carriera (il 27 gennaio ne compirà 31) ed è venuta a raccontarla nella redazione della Tribuna di Treviso. Ha appena archiviato l’ennesimo allenamento nella “sua” palestra di Ponte di Piave e nelle prossime ore preparerà le valigie per il Giappone. L’attendono 15 giorni di confronto con la nazionale nipponica. «Sarò a Okinawa, patria del karate», spiega, «Un bel progetto, un’opportunità di scambio tra federazioni». Sara esprime la gioia di vivere. Citi i cinque cerchi e in un amen gli occhi le brillano. Sara è loquace, non disdegna la battuta. E, al tempo stesso, dimostra grande sensibilità.

Sara, com’è la strada che porta a Tokyo?
«Le modifiche al regolamento sono degli ultimi giorni. Non più gennaio, si partirà da luglio. Conteranno le tappe di Premier League, Mondiali ed Europei. A Tokyo combatteranno in 10: i posti sono 9, in quanto uno è già assegnato al Giappone. Le prime due del ranking a marzo 2020 si garantiranno i Giochi. Per le altre, ci sarà un Preolimpico. Ma l’obiettivo è meritarmi il primo posto del ranking e avere così 6 mesi per concentrarmi sull’Olimpiade. Immagino già i giapponesi belli accaniti, non è un caso che il karate debutti a Tokyo. Lì è come il calcio da noi, lo fanno tutti i bambini».

Lei ha preferito però il karate: come mai?
«In verità da piccola ero un maschiaccio e un po’ il pallone mi piaceva. Sono juventina, ho sempre apprezzato Del Piero e Buffon. Poi nonno Danilo mi ha educata ai film di Bruce Lee e Karate Kid… Impossibile dimenticare quel sacco blu che prendevo a calci e pugni. Sì, la mia è una storia da film. Anche se il carattere mi ha aiutata molto: ho iniziato a praticare sport per la voglia di fare qualcosa in più, perché mi è sempre piaciuta la sfida. Perché ho cercato sempre di superare i miei limiti. Attenzione: spesso il karate è considerato scontro. Prima di vedertela con gli altri devi però battere te stesso. Ti prepari per mesi, per anni, ma poi la prestazione può durare due minuti, un battito di ciglia. La testa fa tanto».
Altro cliché da abbattere: con il karate non ci si fa male, a parte quella volta…
«Lo scontro fisico è più facile provochi infortuni in altre discipline. Io non ne ho mai subìti di gravi, a parte il naso rotto un mese fa. Partecipi a tutte le gare possibili e immaginabili, poi capita che ti fai male in allenamento. Ancora peggio, a fine allenamento. Sì, forse la tensione s’era abbassata».
La carriera svoltò nel 2014 con il titolo iridato: ricordi di quel giorno?
«Pensai a quando da bimba giravo per casa con una spada di legno e urlavo “campioni del mondo”. Mi sentivo una guerriera. Mamma diceva: “Ce ne vuole, prima di diventare campionessa del mondo”. Quel giorno fu impressionante, il sogno cullato per tanti anni. Le gambe tremavano, scoppiai a piangere. In quel 2014 feci tutto: vittorie pure all’Europeo e all’Italiano, matrimonio, arruolamento nell’Esercito. Uno spartiacque: se prima mettevo tanta fisicità e poca testa, dai 26 anni è prevalsa l’esperienza e ho imparato a cogliere l’attimo. Anche perché le avversarie studiano e ormai ti conoscono. Così ogni volta devo reinventarmi».
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