Rui, il Re Mida delle bici: mille vittorie «Questo sport mi ha salvato la vita»
È l’attualità che ti porta anzitutto a chiedergli un incontro: Samuele Battistella, in Zalf nel 2017 e 2018, s’è regalato da poco il titolo mondiale Under 23 nello Yorkshire, il primo assegnato con la Var. «Avrà futuro nelle corse di un giorno. Ha determinazione e non soffre la distanza. La Var? Giusta la squalifica dell’olandese, ma serviva intervenire prima dell’arrivo». Parola di Luciano Rui, un’istituzione fra i direttori sportivi. Il motivo del colloquio, però, è un altro: da poche settimane, ha raggiunto le 1.000 vittorie da tecnico Zalf. Così l’ammiraglia simbolo della Marca - «Egidio Fior e i fratelli Lucchetta sono una famiglia» - viaggia nei ricordi: dallo sport salvavita dopo una giovinezza turbolenta che gli aprì le porte del carcere, ai ritratti dei “figliocci” Ivan Basso e Gianni Moscon. “Ciano” è oggi un nonno felice di due nipotine - i figli Johnny e Eddy fanno i cuochi, il secondo vive in Norvegia e porta un nome che ricorda il tifo del padre per Merckx - che continua a dispensare consigli a tanti talenti del pedale.
Rui, la prima vittoria in Zalf?
«Fu di Paolo Lanfranchi. Quel primo anno, eravamo nel ’91, guidavo la squadra con Aldo Beraldo: 19 successi. Lanfranchi fu sempre sottostimato, anche se poi da pro’ si costruì una bella carriera».
La numero 1.000 è maturata il 18 settembre con Edoardo Faresin, a Collecchio: che sensazione è stata?
«La cifra tonda mi ha fatto riflettere: in 28 anni, cambia il ciclismo e cambi tu come persona. Sei più vecchio, vedi le cose da un’altra ottica: se prima eri l’amico dei corridori, con il passare del tempo sei diventato fratello maggiore e padre. Ora invece mi sento un nonno che sgrida… La miscela vincente, ad ogni modo, resta la stessa: un diesse deve metterci sempre lavoro, serietà, impegno».
La più bella?
«Il Liberazione con Bertolini. Forò due volte, ma rientrò all’ultimo giro, vincendo in volata. La forza aveva battuto la sfortuna».
La più sorprendente?
«Forse il Tricolore 2019, centrato da Marco Frigo. Ha avuto coraggio. Un ragazzo serio, di talento: farà strada».
Quella che manca?
«Il Giro. Siamo più bravi a prepararli per le corse di un giorno».
Come s’innamorò del ciclismo?
«Seguendo in tv la vittoria alla Sanremo di Michele Dancelli. All’inizio fu solo passione, poi diede un senso a tutta la mia vita. Da pro’ un paio d’anni appena decorosi, poi sono stato fra i primi a fare il diesse di professione: un pioniere, per certi versi».
Ma il ciclismo è stato molto più di una passione…
«Mi ha salvato la vita. A cavallo fra dilettanti e pro’, ho vissuto due anni complicati e birichini. Ho avuto la sfortuna di rimanere orfano a 19 anni, di entrambi i genitori: persi, in sei mesi, la mamma per malattia e il papà causa un incidente in motorino. Mia sorella era già via da casa, restai solo. Per qualche tempo, la mia vita fu disordinata. E finii pure in carcere, a Santa Bona, per otto giorni: colpa di una radio, una storia di ricettazione. Era il mio primo anno da pro’, la squadra mi aspettava per il ritiro… Quell’esperienza mi ha insegnato a vivere. Mi sono aggrappato allo sport, trovando la retta via».
Perché scelse di salire in ammiraglia?
«Mi piaceva l’idea di stare con i giovani, insegnando quel poco che avevo imparato dal ciclismo. E i valori della vita».
Com’è cambiato il mestiere?
«Un tempo rimanevano da te cinque anni. Più che tecnico, diventavi amico. Ora li vedi una stagione e poi scappano, scelgono l’estero e puntano sulle Continental. O magari, li prendi già con il contratto pro’: più che istruttore, sei parcheggiatore. Ad ogni modo, dal 2021 bisognerà adeguarsi: per tanti anni siamo stati la Juventus, non possiamo trovarci tagliati fuori».
Gli atleti più forti?
«Una bella lotta fra Savoldelli e Bertolini».
La delusione?
«Gianluca Tarocco. Fortissimo da junior, poi s'è perso».
Ivan Basso?
«Il più inquadrato. Dice che in allenamento non si è mai annoiato. Per lui la bici ha sempre significato divertimento».
Domenico Pozzovivo?
«Ha fatto la storia della “casetta”. Qui due anni da dilettante e altri quattro da pro’: una chioccia per molti ragazzi. L’intelligenza gli ha fatto fare carriera».
Damiano Cunego?
«Classe infinita. Vincendo troppo presto, si è seduto».
Michele Scarponi?
«Venne qui da Tricolore Juniores: non trovava squadra, oggi ne avrebbe 20… Mi hanno sempre colpito umiltà e ironia. La morte è stata una batosta: siamo dei numeri».
Gianni Moscon?
«Il punto debole è il carattere: un perfezionista, ma non può andare sempre come vuole lui. Non so se sia maturo per fare il capitano, ma ha un gran avvenire per le corse di un giorno».
Sacha Modolo?
«Grandi qualità, ma ha un po’ mollato. Se trova il vento contrario, dà il 50%».
Andrea Vendrame?
«Ne apprezzo la serietà. C’è un legame d’affetto, cementato dopo l’incidente».
Il doping?
«Devo ringraziare i medici Patrizio Sarto e Loris Confortin, per avermi indirizzato sulla giusta strada. Oggi vedo ragazzi più istruiti e un ciclismo pulito al 95%. Qualcuno, però, passerà sempre con il semaforo giallo…».
Il segreto di un buon ds?
«Un tempo facevi tutto. Lavoravi con gli sponsor e ti adoperavi per dare un futuro ai ragazzi. Ora ci sono preparatore e procuratore: non sei più l’asse portante. Servono tanta passione e pazienza. E devi vedertela pure con i genitori». —
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