Porcellato vuole l'oro ai Giochi Olimpici di Tokyo: «Lo devo a mio fratello»

TREVISO. Dieci paralimpiadi e 13 medaglie. Un’icona, un simbolo, un esempio di longevità. Francesca Porcellato, 50 anni il 5 settembre, è tutto questo. Alle Paralimpiadi di Tokyo, punterà a chiudere la carriera in bellezza, regalandosi gli unici ori che le mancano. Quelli del paraciclismo. Dialogare con Francesca significa ripercorrere oltre 30 anni di paralimpismo, proiettandosi su Milano-Cortina 2026: è membro della Fondazione che organizzerà le due rassegne invernali.
Porcellato, quando ha deciso di andare avanti, puntando su Tokyo?
«Già dopo il Mondiale 2018. Ero rimasta un po’ insoddisfatta per i due bronzi di Rio, così i due ori vinti nella rassegna iridata di Maniago, gareggiare in casa è sempre fantastico, mi hanno entusiasmata. Di solito valuto di anno in anno, mai fatti progetti a lungo termine. E se c’è ancora voglia di sacrificarsi, se il piacere di correre è superiore alla fatica, decido di proseguire. Ora va ancora così».
Quindi sicura di volare in Giappone?
«Non dobbiamo conquistare la “carta”, come in altre discipline. I nomi li sceglie il cittì Mario Valentini, le certezze le avrò a giugno. Ad oggi, sono l’atleta di punta, ma bisogna vedere come andranno i prossimi mesi».
Come ha pianificato la stagione?
«Da inizio anno, sono alle Canarie. Ci resto tre mesi. Preparo intanto il Mondiale, che si disputerà a giugno in Belgio. Sono qui senza compagni di Nazionale. Ciascuno ha le sue esigenze, a me piace fare così. Ho i miei tempi, mi piace uscire quando me la sento. Da quando pratico handbike, l’ho sempre fatto. Magari due mesi invece che tre, ma quest’anno il Mondiale è anticipato».
Perché le Canarie?
«Ho amici e ci andavo già, quando facevo atletica. Ricordo che dovevo partecipare a un Mondiale in Nuova Zelanda e cercavo un posto al caldo vicino per prepararmi. All’epoca, organizzai con un’amica inglese. Mi trovai bene, non ho più cambiato. Temperatura ideale, terreno mosso. E le strade hanno le corsie per noi: di questi tempi, non è aspetto trascurabile. L’unico problema può essere il vento. Non sono proprio sola: c'è mio marito Dino (Farinazzi, ndr), che è pure mio allenatore».
Ha saltato l’ultimo Mondiale nei Paesi Bassi, ma non poteva fare altrimenti…
«Mio fratello era malato da tempo, purtroppo si è aggravato il mese prima del Mondiale. Sono partita comunque per Emmen, pur fra mille dubbi. Poi, nel giro di 24 ore, la situazione è precipitata. Ed è morto il giorno della mia prima gara. Aveva quattro anni più di me, ma ci sentivamo gemelli. Un fratello speciale. Un compagno di giochi, che mi ha aiutata tanto nella mia condizione di disabile. E il mio più grande tifoso: a inizio carriera, quando abitavo a Riese, mi controllava sempre la carrozzina. Ora è un angioletto, cui spero di riservare a Tokyo una dedica particolare».
In Giappone, disputerà l’ultima Paralimpiade?
«Quasi certamente, sì. A Tokyo, durante i Giochi, compirò 50 anni. Sarà la mia 11ª Paralimpiade, la prima a Seul ’88. E se ci andrò, punterò in alto».
Cosa è cambiato rispetto alla prima volta in Corea?
«Due mondi totalmente differenti. Trent’anni fa, non si parlava ancora di atleta paralimpico, ma di disabile. Siamo cresciuti tanto nella professionalità. Non abbiamo nulla da invidiare, in termini di preparazione e prestazione, a un collega olimpico. Il pubblico ci conosce, a Seul nessuno sapeva chi fossimo. Le Paralimpiadi sono diventate Olimpiade parallele: non è ancora arrivata la parità, ma siamo molto vicini. Senza contare un altro aspetto: agli esordi lavoravo per mantenermi, ora sono quasi professionista».
Che impiego aveva?
«Ero in Comune a Riese, ufficio anagrafe. Contratto a tempo indeterminato. Nel ’96, però, decisi di lasciare. Poteva sembrare all’epoca un azzardo. Ma investire nello sport paralimpico è stata una scommessa vincente. Entrai nell’Atletica Bussolengo, più tardi sarebbero arrivati sci di fondo e paraciclismo».
Da Bebe a Zanardi: i paralimpici sono diventati icone. Lei, al pari di De Vidi, è stata pioniera.
«Sono contenta del mio percorso. Perché è servito anche agli altri. Ora sembra normale contare sulla tivù o su una richiesta d’intervista, ma all’inizio non era affatto così».
È stata la prima a vincere medaglie alle Paralimpiadi in tre discipline diverse: l’avrebbe mai pensato?
«No, è stato casuale. Sono sempre stata aperta di vedute. Mi fu chiesto di provare lo sci in vista delle Paralimpiadi di Torino, poi quattro anni dopo presi l’oro a Sochi. Quanto al paraciclismo, già utilizzavo l’handbike per gli allenamenti estivi del fondo. Partecipavo a qualche gara e vincevo. Mai avrei pensato d’investirci. Dopo Sochi 2014, avevo pure il gomito rotto… Ma il cittì Valentini mi ha corteggiata, finché non ho ceduto».
La specialità del cuore?
«La maratona. Gareggi con i normodotati, le differenze s’annullano. Un po’ mi manca».
È entrata nella Fondazione Milano-Cortina 2026: obiettivi?
«Rappresento il movimento paralimpico, mi piace un sacco. Cercherò di lavorare sull’accessibilità degli impianti e del trasporto pubblico. Saranno Olimpiadi inclusive. E Cortina splenderà di più».
E quando smetterà?
«Magari farò la dirigente, ma allenatrice non mi vedo. Potrei lavorare nel marketing sportivo, testarmi come mental coach. Di certo prenderò un anno sabbatico, godendomi le vacanze che non ho mai fatto». —
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