Papi: capolinea «Torno a Treviso per sempre»

O’ fenomeno, 25 stagioni in A. L’ex della Sisley alla vigilia dei 42 anni ha battuto ogni record
Di Mario De Zanet
PRANDI SISLEY VOLLEY - PIACENZA FINALE SCUDETTO IN FOTO PAPI E BENETTON SISLEY VOLLEY
PRANDI SISLEY VOLLEY - PIACENZA FINALE SCUDETTO IN FOTO PAPI E BENETTON SISLEY VOLLEY

TREVISO. "O' fenomeno", lo chiamano così: Samuele Papi è arrivato alla sua venticinquesima stagione in Serie A, forse l'ultima. Quanti trofei alzati nella carriera di Papi, ma Samuele è rimasto quello di una volta, quel ragazzo che spiccò il volo da Falconara, con l’umiltà trasmessagli dalla famiglia. Una famiglia solida infatti quella di Samuele, che lo ha tenuto con i piedi saldi a terra. «I miei genitori volevano che, nonostante gli impegni con la pallavolo, portassi a casa il diploma. Mio padre desiderava che non facessi la sua stessa fatica nella vita: mio papà era un operaio che si alzava alle 6 di mattina. E quando, al secondo anno di contratto, guadagnavo più di lui, la cosa mi dava fastidio:non trovavo giusto che io a 18 anni guadagnassi più di mio padre, che lavorava da quando ne aveva 14. Io finivo scuola e andavo in palestra per due ore e mezza: c'è il sacrificio e c'è il sudore, ma la pallavolo rimane un gioco. Tuttavia mio padre era felicissimo per me: soprattutto a inizio carriera, papà mi diceva: “Magnate el pallò”. È una frase banale, ma sintetizza ciò che la famiglia mi insegnava: dare tutto in quello che si fa».

Lei è cresciuto a Falconara Marittima, in provincia di Ancona, ma hai deciso di vivere a Treviso nel futuro, come tanti altri sportivi. Cos’ha di speciale questa città?

«È carina, organizzata, sembra sicura. È determinante anche la posizione, perché arrivi velocemente sia al mare che in montagna. Il primo anno alla Sisley ero in affitto a Dosson, ma fui stregato dalla città e, complice il contratto quadriennale firmato, decisi di fare un investimento e comprare un appartamento a Selvana. Inoltre io, Fei e Boninfante abbiamo moglie trevigiana».

Vi trovate ancora?

«Sì, certo. L'anno scorso abbiamo fatto una cena io, Bernardi, Fei, Gravina, Farina, Boninfante; Cisolla purtroppo non è potuto venire: andammo da Gigetto, luogo di ritrovo per noi della Sisley».

Un episodio da spogliatoio degli anni a Treviso? Era celebre per le sue esibizioni canore...

«Sì, cantavo Al Bano sotto la doccia. E una volta Fei si fece i capelli lisci. Era seduto a fianco a me e si stava allacciando le scarpe: mi chiesi chi fosse, poi si alzò e scoppiammo tutti a ridere a crepapelle. C'erano tanti momenti goliardici, ma quando si stava in palestra si lavorava. C'è stato anche qualche screzio, ne ricordo in particolare uno con l'allora direttore sportivo Da Re: avevamo appena perso la gara3 di semifinale contro Trento (2006), sprecando la prima occasione di chiudere la serie ed andare in finale, così arrivammo faccia a faccia, con tanto di urla. Eppure quello scontro fu salutare, me lo disse poi anche lui: “Siamo arrivati vicini a metterci le mani addosso, però abbiamo capito tante cose”. In ogni gruppo, i problemi bisogna trattarli, arrivare anche ad uno scontro, altrimenti diventano troppo grandi: se qualcuno non si sta impegnando, devi dirglielo per il suo bene».

Ha sempre avuto un ottimo rapporto anche con le persone che lavoravano attorno alla squadra...

«Sì, all'inizio non capivo il dialetto, ma poi l'ho imparato. Mi trovavo bene perché sono una persona tranquilla, timida. Posso sembrare per i fatti miei: io non do confidenza, ma perché sono fatto così, non perché sia altezzoso per i miei successi nella pallavolo. È il mio carattere sin da piccolo e personalmente credo che il carattere non lo si cambi: si possono limare i dettagli, ma l'impronta rimane quella»

È scaramantico Samuele Papi?

«No, ora non più. Ma ho avuto un mio rito in passato: dai 21 ai 27 anni circa ho giocato ogni gara di finale indossando lo stesso costume».

Capitolo Nazionale: è stato parte della Generazione di Fenomeni, allenata da quel genio di Velasco.

«In uno dei primi raduni, Velasco mi disse: “Tu tiri troppo in diagonale, ora per due settimane tiri solo la parallela”. Allenandomi con Julio, ho preso coscienza di ciò che avrei potuto realmente fare. La mia crescita deriva anche dalla fortuna di essermi trovato in una squadra eccezionale: credo che nella carriera di un giocatore serva appunto anche la fortuna di incontrare le persone adatte alla crescita».

Velasco era conosciuto per il lavoro sulla testa dei giocatori...

«Oggi c'è un'attenzione maggiore sull'aspetto psicologico: Velasco ne è stato un precursore. La sua più grande battaglia è stata contro gli alibi. Il giocatore ha un'autodifesa e tende ad incolpare il compagno per l'alzata o la ricezione non perfetta. È impossibile eliminarla totalmente, ma Velasco l'ha ridotta al minimo: ci ha indotto a pensare ad aiutare il compagno piuttosto che ad incolparlo».

È arrivato giovanissimo in una squadra di mostri sacri: quali erano le tue sensazioni?

«Ero stordito: era il top in circolazione. Il primo impatto fu in uno stage di una settimana a Bolzano: avevo 17 anni, mentre a 21 entrai stabilmente in Nazionale. L'appuntamento era per cena, ma io arrivai da Falconara in treno: così mi misi a dormire, ma dimenticai di mettere la sveglia. Mi chiamarono in camera: “Signor Papi, la attendono a cena”. È immaginabile l'imbarazzo, a 17 anni, alla prima chiamata in Nazionale, insieme a quei fenomeni: scesi e salutai tutti, che erano già lì. Non arrossisco facilmente, ma quella sera arrossii davvero tanto. E in quella settimana penso di aver detto quattro parole in tutto. Con il passare del tempo invece iniziai a prendermi i miei spazi, anche perché i veterani erano tutti molto disponibili nei confronti miei, del povero Bovolenta, di Meoni: credo fossero contenti di avere giovani che li stimolavano. Noi giovani scherzavamo specialmente con Zorzi, perché ci stuzzicavamo: gli dava fastidio quando lo muravamo. Era una sfida continua, ma propositiva ed utile alla crescita di tutti. Ecco la fortuna di cui parlo: è impossibile non migliorare allenandosi tre mesi all'anno con fenomeni del genere».

L'hobby di Samuele Papi?

«Ho la sindrome di Peter Pan e sono ancora appassionato di videogames. Penso che ci sia ancora tanta gente della mia età che gioca: sono quelli che tempo fa si divertivano con il Commodore 64. E poi ho una passione sfrenata per il modellismo dinamico: amo guidare le macchine radiocomandate, tanto che il mio primo stipendio lo spesi così. Mamma quanto si arrabbiò mio padre: acquistai un fuoristrada radiocomandato in scala 1:8, con il motore a scoppio, capace di raggiungere i 90 km/h. Ma quella fu una delle eccezioni in quanto ad acquisti costosi, perché, come dicono tanti miei compagni, sono tirchio. Ed è proprio perché sono cresciuto vedendo cosa significa lavorare e sudare per mantenere una famiglia».

Il ritiro a fine stagione è certo?

«È molto probabile. Una percentuale? Direi che al 90% smetterò, ma una porta la lascio aperta. Mi prenderò un mese per decidere a fine di questo campionato: quello di cui mi sono accorto è che è sopraggiunta una grande fatica mentale, oltre a quella fisica. Non ci sarebbe nulla di male a ritirarsi a 42 anni, ma voglio riservarmi del tempo per pensarci».

Il tuo futuro: come lo vede?

«Sarà a Treviso, dove ho moglie e figlie. Voglio capire bene cosa vorrò fare:non so ancora se rimarrò nella pallavolo. Ora come ora, credo mi potrebbe piacere allenare dei ragazzi delle giovanili: ci sono diverse realtà attorno a Treviso e credo sarebbe appagante dare la mia esperienza a dei ragazzi».

Chiunque vorrebbe essere allenato da un personaggio simile, ma la speranza è che Papi continui ancora ad esibire i propri colpi in campo. E che continui a battere record.

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