Orso I, Ilie Nastase e l’enigmatico Ivan

Sessant’anni di Wimbledon, ovvero la “bibbia del tennis” scritta da Gianni Clerici
Di Claudio Giua

di CLAUDIO GIUA

Nell'attesa di lunedì, quando riapriranno i cancelli su Church Road dell'All England Lawn Tennis and Croquet Club, le tv sportive stanno via via trasmettendo i preziosi film delle più belle sfide di Wimbledon. L'altro ieri ho rivisto le finali Borg vs. McEnroe del 1980 e dell'81, ieri Sampras vs. Agassi del '93 (era il quarto di finale, vinse Pete per 6-2 6-2 3-6 3-6 6-4). In questi casi l'effetto nostalgia funziona come quando rivedo Felice Gimondi entrare da trionfatore al Parco dei Principi e mi sovviene mio padre, lì accanto davanti al Magnadyne, che piange silenziosamente; oppure come quando rivivo la notte dell'Apollo 11, con Ruggero Orlando e Tito Stagno che m'appaiono, loro, più eroi di Armstrong, Aldrin e Collins.

Forza delle immagini, che fanno più danni se si dispone di un'amigdala non più al meglio. Eppure nessun replay dei lungolinea e dei cross sul verde della Centre Court, terroso e scolorito nonostante il televisore HD, riesce ad evocare emozioni quanto la lettura delle cronache di Gianni Clerici. Che il 6 luglio 1980 a proposito di Orso I, come chiamava il tennista venuto dalla gelida Sodertalje, scrisse sul Giorno: «Sono stato tre ore e cinquantatré minuti senza fare la pipì. Non solo per questo, la finale mi è parsa indimenticabile. Prima di andare sotto, quella testa rossa di Mac ha salvato qualcosa come sette match point. Prima di difendere in quel modo orgoglioso una sconfitta quasi sicura, aveva condotto il match per circa un'ora e dieci minuti, facendo apparire Borg goffo, inadeguato all'erba, a tratti impaurito». Invece il goffo, inadeguato, impaurito e perfino un po' gobbo ventiquattrenne biondo vinse anche quella volta (1-6 7-5 6-3 6-7 8-6), ed era la sua quinta Wimbledon consecutiva. Ma sarebbe stata l'ultima. L'anno successivo, John McEnroe (4-6 7-6 7-6 6-4) confermò a Bjorn che era il momento di lasciare per sempre il circo dei gesti bianchi. Commentò Clerici: «È morto il re, viva il re. Nel momento in cui grido urrà a McEnroe, per la sua grande partita, mi domando se si tratti di autentica successione, e mi permetto di dubitare che questo fenomenale irlandese sarà in grado di ripetere le gesta di Orso I». Non ci riuscì.

Bjorn e John, corrucciati, sono sulla copertina di "Wimbledon. Sessant'anni di storia del più importante torneo del mondo", Mondadori, 22 euro, 710 pagine di testo, 24 di foto di cui l'ultima è di Gianni che alza il certificato della sua avvenuta elezione tra i miti della Hall of Fame tennistica di Newport, secondo e ultimo italiano dopo Nicola Pietrangeli. Sulle gradinate s'intravvede la standing ovation di anziane signore in cappellino: forse qualcuna aveva letto sul programma ufficiale del 16 luglio 2006 che Mr. Clerici fu in gioventù un eccellente tennista e giocò tra il '53 e il '54 tre partite ufficiali a Wimbledon, due singolari, una in coppia con Orlando Sirola (tre sconfitte, ma questo conta poco).

Scrivendo dilettantisticamente di tennis, lo dichiaro qui: mai più un match di Wimbledon senza avere accanto la bibbia verde-oro di Clerici, come i . lettori della mia rubrica Monday's Net su Repubblica.it verificheranno nei prossimi giorni. In ogni pagina un'osservazione fulminante, un giudizio definitivo, un dubbio irrisolubile, uno spunto utile. Per esempio, nel suo primo pezzo per Repubblica nel 1987 Gianni annotava così un matrimonio parigino: «Tra gli elegantissimi testimoni spiccava Ilie Nastase, in canzoncini corti e scarp de' tenis: per ammetterlo in chiesa, così combinato, c'è voluta tutta la buona volontà di un sacerdote molto sportivo. Ilie Nastase è ancora in possesso del record del Masters, quattro vittorie, esattamente come Ivan Lendl. Pensare che tra qualche anno un Lendl felicemente ritirato dalle gare possa presentarsi in chiesa in giacca nera e mutande bianche mi sembra audace, i due recordmen del Masters sono molto diversi, uno zingaro e latino, l'altro più tedesco che moravo». Ecco, letteratura che ferma in poche righe i caratteri di due grandi campioni: le avessi avute sotto mano, queste righe, mentre giorni fa scrivevo del doppio di beneficienza Murray-Henman contro Berdych-Lendl al Queen's Club, avrei avuto quanto mi serviva per spiegare chi era ed è oggi l'enigmatico Ivan, coach dello scozzese numero 2 al mondo.

@claudiogiua

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