Due trevigiani e una Panda tra i deserti del Caucaso

Francesco Gottardo ed Enrico Alexandre sono arrivati 13esimi al Mongolrally. Dalla Repubblica Ceca alla Russia, 15.600 km e la temuta rotta del Pamir

TREVISO. Due uomini e una Panda. Attraverso 15 Paesi, 16 frontiere e sei fusi orari. Dalla Repubblica Ceca alla Mongolia, dalla Turchia alla Russia. Fra una festa in Iran a base di birra e l’incontro poco rassicurante con un coltivatore di oppio armato di fucile. Fra le improvvise voragini delle strade del Kazakistan e quel guasto allo spinterogeno che poteva chiudere l’avventura ancor prima che iniziasse. Francesco Gottardo ed Enrico Alexandre hanno deciso di regalarsi quest’estate una vacanza speciale: il Mongolrally, con una Panda 4x4. Pochi giorni fa il completamento della missione, dopo quasi un mese di viaggio.

I PROTAGONISTI



Entrambi di Treviso, l’uno ha 35 anni, si è laureato in Ingegneria al Politecnico ed è impiegato alle Generali a Milano. L’altro ha invece 28 anni ed è specializzando in Otorinolaringoiatria all’università di Padova. «Ci conosciamo da 10 anni, tutto è nato una sera d’inverno al bar», racconta Francesco, «Alla quinta birra, forse avevamo osato un po’, abbiamo deciso d’iscriverci. Da tempo, volevamo fare un’esperienza simile insieme. Io avevo già attraversato l’India in Ape nel 2014, Enrico s’era fatto in passato viaggi in bici fra Turchia e Albania». La particolarità è che hanno solcato pianure e deserti con una Panda modificata del ’93: «Con i nostri 15.960 km l’abbiamo portata a 205mila. Difficile possa concedersi un altro raid». I due amici hanno denominato il team “Panda Ray”. E, più che alla traduzione letterale dall’inglese, il pensiero volge all’assonanza con un notissimo aforisma. Perché “tutto scorre”, a maggior ragione quando ti confronti con culture e costumi lontani dai nostri.

LA MISSIONE



Scopo della missione? Il divertimento fa rima con beneficenza: i due compagni di viaggio faranno una donazione a “She Tech Italy”, associazione con cui alcune professioniste investono il tempo libero, supportando altre donne nella formazione tecnologica. Il viaggio, invece, ha preso forma già qualche mese prima: «Serviva una Panda ritoccata e l’abbiamo trovata nel Varesotto. Pasquale, il proprietario, l’aveva fatta attrezzare apposta per un rally. Ma, con la nascita dei figli, aveva dovuto rimandare e il sogno era rimasto nel cassetto». Il bello è che il loro rally ha rischiato di concludersi subito: «A 12 km dal via da Praga, si rompe lo spinterogeno. Ci fermiamo in una stazione di servizio, siamo ormai pronti a ritirarci e ad approfittare del tempo libero per fare i turisti. Invece un meccanico ci risolve miracolosamente l’inghippo e pigiamo sull'acceleratore per riportarci sui primi». Dalla Repubblica Ceca sono partiti 300 team, una quarantina italiani. «Speravamo “Panda Ray” fosse originale, invece c’era già chi si chiamava così», se la ridono. Come itinerario avevano due opzioni: la rotta a Nord o quella a Sud, domando le curve insidiosissime della Pamir Highway. Francesco ed Enrico, forse con un pizzico di sadismo, hanno scelto la seconda. Dalla Turchia all’Azerbaijan, il traghetto per superare il Mar Caspio e raggiungere il Kazakistan. Prendendo dimestichezza con lo sterrato, provando l’ebbrezza dei 4000 metri di altitudine: la Pamir è ritenuta fra le strade più pericolose al mondo. «In Iran abbiamo avuto seri problemi alle sospensioni», spiegano, «L’autista di una guida, sfidando temperature infernali, ci ha risolto il guaio in mezz’ora».

DIARIO DI BORDO



Non facile il rapporto con il cibo: «Anche perché io sono vegetariano, tra cirillico e menù differenti è stato piuttosto complicato. Eterne negoziazioni. Meglio andava al mio amico che amava provare tutto. A proposito: non consiglierei di visitare certe cucine». In Iran, fra una birra e l'altra, sono capitati in una festa di giovani: si respirava libertà, le ragazze vestivano all’occidentale. Sei le notti passate invece a dormire in Panda, una volta 24 ore in macchina senza sosta. «Pure al buio, ai 4000 metri della Pamir», riflettono. Ma la paura s’è materializzata un giorno solo: «Quando un coltivatore di oppio, fucile a tracolla, ci ha fatto capire che era meglio levarsi di torno. Eravamo al confine con l’Afghanistan: abbiamo alzato i giri della Panda e sgasato». Un tempo s’arrivava a Ular Bator. Ora la Mongolia la si attraversa solo, per ragioni logistiche il traguardo è in Russia: «Non c’è classifica ufficiale, ma, fra quelli che hanno fatto la via del Sud, abbiamo chiuso al 13° posto. Con una media di 600 km al giorno nei 26 di gara. Un viaggio intimo: due amici si conoscono di più o litigano di brutto. Fra noi il legame è diventato più forte».

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