Ciclismo, il ritiro di Oscar Gatto, gregario vincente: «Fiandre, quante gioie. Ma è l’ora di lasciare»

Una carriera con 15 successi: ha battuto anche Contador 
ALTIVOLE. Al De Panne di mercoledì scorso, ha dato l’ultima zampata. Oscar Gatto, 36 anni il 1° gennaio, 15 centri fra cui una tappa al Giro 2011, ha appeso la bici al chiodo. Il perché e il come ce lo racconta a telefono, dopo essere atterrato a Nizza. Ultimo viaggio aereo per ragioni ciclistiche dopo 14 anni da pro’. 
 
Gatto, quando ha deciso di ritirarsi?
 
«Una settimana fa. E sono molto tranquillo, contento così. Ero un po’ demotivato, non mi sentivo più competitivo. Ci sarebbe stata la possibilità di continuare alla Bora, ma l’inconscio mi suggeriva di dire basta. Il ciclismo, fra ritiri e corse, ti porta a restare mesi lontano da casa. Tutto ciò, alla lunga, pesa. Di certo ha influito pure la strana stagione tormentata dal Covid: avevo lavorato sodo in inverno per preparare le classiche e poi... sono state rinviate a fine anno. Ci siamo trovati con un calendario compresso, non facile da gestire: trovavi chi aveva corso di più e chi meno, tanti squilibri. Ed ero sempre a inseguire. Sì, forse è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Era l’ora di voltare pagina». 
 
Una decisione maturata negli ultimi giorni?
 
«Ogni tanto l’idea mi passava per la testa, il ritiro l’avevo già preso in considerazione. Gli ultimi giorni, però, ho tirato le somme e deciso. Mi sono reso conto che non ero più quello che avrei voluto essere. E che le mie soddisfazioni comunque me le ero prese. Sono felice soprattutto di aver deciso io di smettere: non capita a tutti».
 
Da amante delle corse in Belgio, l’ultimo dorsale l’ha attaccato a La Panne: coincidenza o epilogo voluto? 
 
«Era già previsto che quella fosse l’ultima corsa della stagione. Una giornata purtroppo dura fin dai primi chilometri, mi sono trovato a rincorrere per il vento. Così ho avuto il tempo di pensare, l’emozione c’era: l’ultimo massaggio pre-gara, l’ultima volta in gruppo, l’ultima doccia in bus. Non so se, fra qualche mese, mi assalirà la nostalgia. Probabile succederà a fine anno, quando di solito si preparano le valigie, in vista dei primi ritiri. Ora, però, sono rilassato e sereno». 
 
Come si vede giù dalla bici?
 
«Non so fare altro che correre in bici, è la mia vita da 30 anni. Sarà un cambiamento drastico. Il ciclismo è un mondo che non c’entra nulla con la vita normale. La svolta un po’ spaventa, ma ce l’hanno fatta tutti e ce la farò pure io. Ho intenzione di rimanere a Montecarlo. Qualche idea per il futuro ce l’ho, ma è presto per parlare di progetti». 
 
Non rimane nel ciclismo? 
 
«No, non mi vedo in nessun ruolo. Né tantomeno direttore sportivo. Il ciclismo potrebbe limitarsi a qualche sgambata con l’amico Peter Sagan. O a giornate da spettatore a bordo strada, in Belgio. A proposito: tristissimo il Fiandre senza pubblico». 
 
Le gioie più belle in carriera? 
 
«La tappa al Giro a Tropea, battendo Contador. E, per il feeling con il Nord, il successo all’Attraverso le Fiandre. Ma ci sono vittorie da gregario che valgono forse di più. Veder trionfare il capitano, grazie al lavoro che hai fatto, dà una gioia immensa. Penso al Fiandre 2016 vinto da Sagan: fra le giornate più belle della mia carriera. Così come i Tricolori del compagno Visconti». 
 
Rimpianti? 
 
«O nasci leader, o nasci gregario. Per essere capitano, serve la testa. Sono soddisfatto così. La mia carriera è stata buona, più che buona. Ho fatto 14 anni da professionista e non so quanti in attività possano vantare 15 vittorie. L’unico rammarico è legato forse a un’esperienza in Nazionale. Mondiale di Valkenburg 2012, chiusi 13°. Se non avessi preso dietro l’ultimo Cauberg, mi sarei piazzato meglio. Non dico sul podio, ma vicino sì».
 
Il rapporto con Sagan?
 
«Non è il mio capitano, è un amico. Da anni, siamo pure vicini di casa. Nel ciclismo, conosci tante persone, ma gli amici veri sono pochi. Li conti sulle dita di una mano. E, fra gli amici veri, ci sono pure Marco Bandiera, che ha già smesso da qualche anno, e Pippo Pozzato. Senza scordare Matteo Tosatto: come gregario, aveva una marcia in più di tutti. Sapeva sempre trovarsi al posto giusto nel momento giusto. Ci siamo allenati spesso assieme, siamo stati compagni alla Tinkoff: mi ha insegnato tanto».
 
Il diesse cui è più legato? 
 
«Luca Scinto. Forse anche perché abbiamo lavorato cinque anni. Spesso si è discusso, i confronti sono stati accesi. Pure con toni feroci. Ma con lui ho vinto una tappa al Giro. E scommise su di me, quando ero rimasto a piedi dopo l’esperienza in Gerolsteiner. Gli devo tanto». 
 
Sul massaggiatore non abbiamo dubbi. 
 
«Cristian Valente è un grande amico. E poi, ci sono altre persone meno note, ma che ti restano nel cuore: appresa la notizia del ritiro, mi ha mandato un messaggio un massaggiatore della Nazionale dei tempi in cui ero U23. Manco immaginavo si ricordasse ancora di me». 
 
La prima volta in bici?
 
«Avrò avuto 6 anni. I miei mi portarono alla pista del karting di Caselle di Altivole, il mio paese. Lì s’allenava una squadretta di Giovanissimi, la Ricreativa Contea H20: decisi di unirmi. Il resto lo sapete». 
 
Lei che di Nord se ne intende, c’è un corridore italiano che promette bene per muri e pavé? 
 
«Direi Ballerini. Comunque, basta vedere il Giro, è in atto un ricambio generazionale. E delle nuove leve mi piacciono Van Aert, Van der Poel ed Evenepoel». 
 
Ora cosa farà?
 
«Mi dedicherà al 100% alla famiglia. A mia moglie Francesca. Ai figli Tommaso, che ne compie 7 anni a dicembre, e Glenda, bimbetta già di un anno». 
 
Chi vuole ringraziare?
 
«Papà Stefano: mi ha sempre sostenuto, specie quando non girava. E il supertifoso Roberto Favretto, che ha creato il Fan Club. Quando la pandemia sarà solo un ricordo, organizzerò una festa d’addio. Per salutare tutti i tifosi». —

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