«Che brutto silenzio» Iacopini dà la carica ai fan della Benetton

«Trent’anni non si cancellano, la pallacanestro è un capitale della città e la sua storia non può finire in questo modo»

di Antonio Frigo

«E poi ci troveremo come le star/a bere del whisky al Roxy Bar», cantavano i ragazzi già da un paio d’anni, quando Iako arrivò a Treviso dalla Fortitudo. Da Empoli al Palaverde via Bologna. Il suo nome, insieme a quelli di Solomon, Minto, Vazzoler, Casarin e Marietta e molti altri, ha lo stesso effetto, sui tifosi storici, di una staffilata di nostalgia.

«Treviso voleva diventare grande, ma già era felice di essere tra le big della pallacanestro italiana, i ragazzi crescevano in curva come sotto le ali di una chiassosa chioccia, con qualche sbandata e tanta allegria, gioia. Il Palaverde tremava sotto i balzi e gli applausi del tifo. Era la più bella bolgia che uno possa immaginare ancora oggi. Pensare, ora, che tutto potrebbe diventare un ricordo-favola, fa male a tutti, ma soprattutto a chi ha vissuto tutto questo, dice Massimo «Iako» Iacopini, che da quel 1985 ha giocato 10 anni nella Benetton. Qui ha trovato moglie, qui è diventato adulto, qui è stato un mito, qui ha coltivato amici. Un anno a Siena e uno a Padova non hanno inciso granchè sulla sua vita. A 32 anni, quando ha deciso di uscire dal parquet, è tornato nella sua Empoli, per riaffacciarsi 10 anni dopo a Treviso, con un incarico in Benetton Basket. Poi la società non ha più avuto bisogno di lui. Ma Iako è rimasto qui. Fa il procuratore di basket per una società americana, i suoi figli crescono, Rocco gioca nell’Under 19 della Benetton. Dicono che non sia talentuoso come papà, ma che si diverta un sacco e cresca bene. Lui, Sofia, Pietro, restano ancora colpiti dal modo in cui papà viene indicato, salutato, coccolato per strada. «Non mi hanno mai visto giocare, non possono ricordare cos’era la Benetton per Treviso in quegli anni. Eppure i primi 5 furono di poche soddisfazioni, più facile fare i playout che i playoff. Ma c’era fame di sport ad alto livello, c’era voglia di identificarsi. I tifosi ci guardavano e vedevano la loro rappresentativa, nel vero senso della parola, in campo. Squada e città erano vicine, per strada si parlava della Benetton. Non succede più, è orribile. E c’è un fatalismo tale, che a me viene una rabbia...».

E’ cambiato tutto. Sì, è così: ci si vedeva per un’ombra, si sparavano cazzate, ci si parlava molto e talvolta a vanvera. Ora i ragazzi comunicano con il mondo, sui tasti del telefonico corrono conversazioni che allora erano impossibili. Sai i gettoni?... Ma di quel clima noi siamo testimoni e innamorati. E siamo diventati trevigiani: io, Pittis, Nicola... Ci siamo fermati qui. Allora l’entusiasmo di Gilberto Benetton era grande, contagiava. Oggi, quando vedo la Lalla sola e triste in tribuna a tifare, mi viene lo scoramento». Quando è arrivato l’annuncio del... passo indietro dei Benetton dopo 30 anni, è stato un colpo. «Io e mia moglie ci siamo guardati, attoniti: ma come, se noi siamo qui è per questo, grazie a questo. E ora? Poi ho pensato: va bene, i Benetton hanno pure il diritto, dopo un lungo impegno, di farsi i fatti loro. In fondo, per 30 anni Gilberto il suo biglietto al Palaverde l’ha pagato carissimo... Pensi a una reazione, attendi che qualcuno raccolga il testimone. Magari non per rinnovare quei fasti, ma anche sì: hai visto Siena cos’ha fatto approfittando di una congiuntura favorevole?».

Ma anche i trevigiani hanno le loro colpe. Lo scudetto non bastava più... «E’ una brutta abitudine locale: o fai sempre di più, oppure perdono amore. Ma le coppe e i traguardi non te li regala nessuno. In Italia e all’estero. Qui ce la giocavamo con Milano, Bologna, Pesaro, Caserta sempre con il coltello tra i denti. Eppure il Palaverde tremava sempre meno. E oggi non trema più. Deve tornare a farlo, deve. Uno scatto d’orgoglio dei tifosi, no? Magari anche a qualcuno dei “nostri” che ha fatto fortuna viene la voglia di investire».

La curiosità è tanta: e tra i vecchi compagni, quelli che facevano tremare il Palaverde, cos’è rimasto? «Non ci perdiamo di vista, siamo ancora legati, ci vediamo, spariamo ancora cazzate.Magari non ci si vede per un po’, ma poi scatta. Vazzoler mi ha appena invitato per la festa dei suoi 50 anni: ci si vede tutti lì, credo. Minto fa il procuratore, Casarin fa con successo il general manager della Reyer. Domenica vado a vederla la Reyer al Palaverde, magari ha lo stesso tifo chiassoso e felice d’un tempo. Tornare in A/1 dopo 17 anni dev’essere stato un colpo».

Magari anche Treviso deve passare per un castigo del genere ... «Ma perchè buttare via tutto questo capitale, me lo spieghi? La pallacanestro c’era prima di Benetton, a Treviso; fa parte del tessuto sociale, della storia, addirittura del percorso di crescita dei trevigiani che allora la rincorrevano anche in trasferta. Ha aiutato la città ad essere conosciuta in Italia e all’estero, ha fatto parte dell’emancipazione dei trevigiani. Questo fatalismo, questa rassegnazione al fatto che il prossimo anno la prima squadra potrebbe non esserci più, mi fa tremare i polsi». Magari qualcuno s’è fatto vivo ed è stato fatto rimbalzare... «Ma lo dica, ci spieghi perchè. Questo silenzio di tomba fa paura».

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