Capitano, nostro capitano. Ovvero Zin

Un cognome come il sibilo di una sciabolata. Un giocatore che anche da giovane sembrava vecchio: serio, professionale, tenace. Uno zio, direbbero gli estimatori calcistici di Bergomi.
Lui è Il primo capitano: Faram, Liberti, Benetton. Uno dei pionieri: lui, De Sisti e pochissimi altri gettarono il seme.
In due parole Adriano Zin. Oggi Zin va per i 63, lavora sempre alla stessa banca di allora e guarda compiaciuto i ragazzi di Treviso Basket, che potrebbero essere quasi suoi nipoti.
«Una squadra di giovani è una ventata di novità, una cosa bella e piacevole. Poi qualche inserimento di noi vecchi aiuta e trasmette loro un po’ di esperienza. Inoltre il fatto che dopo lo scioglimento della Benetton si tenga vivo l’interesse per il basket è molto positivo: a Treviso poteva sparire tutto, invece Vazzoler è stato bravissimo a tenere assieme la società, parlo di Coldebella, Favaro, Fregonese, e coinvolgere anche Pittis assieme a degli imprenditori locali per portare avanti il discorso».
Alla tua verde età pensi di unirti in campo ai veterani?
«Sono un over 60 che ha avuto anche qualche problema fisico, mi hanno proibito di fare qualsiasi tipo di attività sportiva, sennò figuratevi se non giocavo anch’io. Comunque dopo che ti sei fermato, riprendere a correre è dura; il mestiere conta poco se ti manca il fiato. C’è un vecchio detto: nella pallacanestro se anche non sai giocare, corri».
Vogliamo cominciare con i ricordi?
«Ero capitano a 28 anni con attorno dei ragazzini: Pressacco, Bocchi e Riva ne avevano 21, Dolfi 22, Vazzoler 18, mi chiamavano la chioccia. Avevamo un eccezionale spirito di squadra, un gruppo affiatato, con tutta una città che ci voleva bene. La domenica, finita la riunione, si andava a farci un calice di prosecco: la gente che ci vedeva diceva: ma come, tra poco avete la partita e bevete vino? Era solo un modo per stare assieme. E‘ bello vedere che anche oggi c’è una società che cerca di coinvolgere la città, con tifosi appassionati come i Fioi dea Sud».
Vogliamo parlare di quel Benetton-Carrera 80-76, 11/10/1981 a Padova con 3000 spettatori? E del duello con tale Spencer Haywood?
«Giocammo alle 15 per la diretta tv e la notte prima dormii 3-4 ore, anche perché mia figlia aveva un anno… Temevo un disastro, Davide contro Golia, invece fui stimolato, io specialista difensivo, dal marcare quel grandissimo personaggio. Segnò 24 punti e 24 glieli segnai anch’io… Ebbi titoloni anche dalla Gazzetta dello Sport, vennero ad intervistarmi in banca, la mia più bella partita di sempre con quella contro la Magniflex, peccato che non ne abbia una registrazione, mia figlia continua a chiedermi di mostrarle come giocava suo padre».
E la Vespa metallizzata?
«Uscivo alle 16.45 dalla banca in piazza dei Signori, prendevo la Vespa parcheggiata ai Soffioni e alle 17 esatte ero alle Piscine, o al Fogher da dove si partiva per Padova. Certo, vedendo arrivare il capitano in sella ad una moto, i giovani mi prendevano in giro. Adesso arrivano in Suv: anche questo è un segno dei tempi».
La tua battaglia più dura l‘hai raccontata in un libro, A…: nel 1997 ti diagnosticarono un tumore alle vertebre.
«Mi consideravo in bacino di carenaggio: ogni tanto un tagliando. Con qualche piccola conseguenza fisica, ma in fondo non ci ho mai fatto caso».
Tra poco sarai in pensione: insegnerai basket?
«Non sono uno che si propone, mi piacerebbe che mi chiamassero. Ho la mania di curare il tiro, sapete, all’inizio ero una mano quadra, poi ho trovato chi me l’ha arrotondata».
Ciao, caro, vecchio capitano. Certo, se entrassi perd ue tiri liberi...
Silvano Focarelli
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