Kechiche, l’inno all’amore è “Mektoub, My Love”

Ci sono film che provano a raccontare la realtà e film che cercano la verità. “Mektoub, My Love: canto uno” di Abdellatif Kechiche fa parte del secondo gruppo. Per restituire un senso di verità, il...
Ci sono film che provano a raccontare la realtà e film che cercano la verità. “Mektoub, My Love: canto uno” di Abdellatif Kechiche fa parte del secondo gruppo. Per restituire un senso di verità, il regista Franco-tunisino si affida all’esperienza degli attori, tutti professionisti, e a un lavoro sui tempi cinematografici caratterizzato da una dilatazione estrema che porta il film a tagliare il traguardo delle tre ore. Tutto nei suoi film dura, apparentemente, più del dovuto, sia che si tratti di una scena di ballo, sia che si filmi un incontro d’amore. Ed è con una lunga scena di sesso che si apre il film. Tony e Ophélie stanno facendo l’amore mentre Amin li spia dalla finestra. Con un incipit del genere non si può non pensare allo sguardo voyeurista del regista. Accusa alla quale l’autore non è nuovo.


In conferenza stampa una giornalista spagnola parla di «sguardo macho», sentimento che gran parte del pubblico proverà nei confronti della quantità di inquadrature dedicate a scollature abbondanti e fondoschiena femminili. Il regista, davanti ad un’affermazione del genere, appare stupito e in qualche modo affranto; a venirgli incontro è un’altra giornalista che al contrario parla di questo film come di un inno alla vita e alla fertilità.


“Mektoub, My Love” è il racconto di un’estate del 1994 in un paese nel sud del Francia. Amin è il protagonista non protagonista. Lui è il centro del racconto, ma per gran parte del film appare come un semplice osservatore. Il suo desiderio è quello di scrivere sceneggiature e da bravo scrittore alterna il vivere con il solo guardare. Kechiche non è un autore facile, ma ha il gran pregio di essere ancora un uomo di cinema, anche se non si condivide la sua idea di messa in scena. Anche se sollecitati dai giornalisti non permette ai suoi attori di prendere parola, e questa arroganza, forse involontaria, non lo rende simpatico. “Mektoub” significa destino: «Le storie d’amore si associano spesso all’idea di fato e di karma» dice, e infatti il film termina con un incontro casuale che offre il cliffhanger per il canto successivo che il regista ha già girato. «Il progetto è pensato in tre parti, spero dopo Venezia di riuscire a girare l’ultimo capitolo» aggiunge ricordando come lui sia anche il produttore, condizione a un tempo croce e delizia per un autore. Per lui vuol dire disporre della totale libertà, da qui la durata non commerciale dei suoi film. Per terminare quello che a oggi è un dittico, sembra abbia cercato di mettere all’asta la Palma d’oro vinta 4 anni fa grazie a “La vita di Adele”. Un Leone aiuterebbe certo il progetto, chissà se un attrice progressista come Annete Bening apprezzerà la messa in scena di questo vitale e bellissimo racconto d’amore o ne rimmarrà annoiata e offesa come è successo ieri a buona parte della critica.


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