Guerrino Bonaldo il poeta dell’incisione Treviso gli dedichi subito una mostra

Ero un giovane studente di Storia dell’Arte quando mi apparve in una locandina, presi il treno e andai a Ferrara per vederlo

Marco Goldin

Tanti anni fa, nel giorno del mio compleanno, in una giornata freddissima di gennaio, stavo passando sotto ai Soffioni a Treviso. Erano i tempi in cui studiavo storia dell’arte a Ca’ Foscari, e stavo per concludere gli esami, prima della laurea. Girato l’angolo, la mia attenzione cadde su una piccola locandina bianca, appesa su una vetrina. C’era un nome, anzi un cognome soltanto. Poi un luogo, delle date e soprattutto un’immagine, in bianco e nero. Mi avvicinai per vedere meglio, perché da più lontano quel minimo paesaggio, poiché di quello si trattava, non era molto distinguibile. Avevo imparato a conoscere, e ad amare, da almeno un anno il mondo dell’incisione, così riconobbi subito quella come un’acquaforte. Era un paesaggio invernale, scabro e spoglio, reso trina dal freddo intenso nella campagna. Si potevano ammirare i segni sulla lastra, poi stampati, come fossero stati tracciati con un ago sottilissimo. Mi piaceva l’idea che qualcuno disegnasse sulla lastra di rame come avesse in mano un ago anziché il bulino, perché il segno fosse il più sottile possibile, quasi invisibile. Solo alla fine lessi il nome dell’autore: sulla locandina c’era scritto Bonaldo.



Avevo compiuto quel giorno ventitré anni e non lo avevo sentito nominare mai. Però presi una decisione da solo, senza chiedere nulla nemmeno ai miei amici che ne sapevano di sicuro più di me sull’incisione trevigiana. Quella campagna assoluta nel bozzolo dell’inverno mi era piaciuta così tanto, che decisi di comperare il biglietto del treno, la settimana successiva, per andare a Ferrara a visitare la mostra nel prestigioso Palazzo dei Diamanti. Senza sapere chi fosse quell’artista e senza sapere se mi sarebbero piaciute anche le altre sue opere. Però mi bastava sapere che avrei visto almeno quel foglio inciso, che avevo per la prima volta notato al sottoportico dei Soffioni. Non mi serviva altro per partire.



Adesso che Guerrino Bonaldo è morto da qualche giorno, lui che era nato nel 1941 ed è stato uno tra i più grandi incisori veneti del secondo Novecento, tengo fra le mani, con tutta la dolcezza e l’amore che mi fa pensare a coloro che sono assenti, il catalogo di quella mostra. Sono passati 34 anni da allora, ma è ancora perfetto e lindo nel suo bianco patinato e abbagliante, come si usava in quel tempo per i cataloghi d’arte. Sollevo la copertina, di un cartoncino più rigido, e trovo quello che cercavo e ricordavo. La sua dedica. “Zero Branco, 24.1.1984. A Marco Goldin con simpatia. Bonaldo Guerrino”. Dopo essere andato a Ferrara, e avere ammirato quella straordinaria antologica delle sue incisioni dai primi anni sessanta fino al 1983, avevo scritto un lungo articolo per il settimanale diocesano, sul quale da un paio d’anni, sotto la direzione del caro don Lino Cusinato, firmavo i miei primi articoli sull’arte. Quel pezzo a Guerrino piacque molto e mi invitò allora nella sua casa a Zero Branco, per darmi il catalogo e regalarmi una delle sue incisioni, che volle scegliessi io. Un uomo mite e riservato che quasi subiva la sua timidezza, però con veri accenti di passione, e che mascherava certe giuste rivendicazioni entro silenzi ancora più vibranti e tesi. Ho imparato, nel corso degli anni, a riconoscere e amare i tratti del suo carattere, quel suo essere in apparenza spigoloso e invece follemente innamorato del suo lavoro e del modo in cui lo interpretava.



Ho ripreso adesso in mano, con emozione, il catalogo della prima mostra che ho curato, nell’autunno di quel 1984. Fatta ad Asolo, era un brevissimo censimento di alcuni incisori trevigiani del ’900. Apro le pagine che avevo dedicato a Bonaldo, aprivo così: “Se vi capiterà d’incontrare Guerrino Bonaldo e di colloquiare con lui sul significato dell’incisione, non vi dovrebbe sfuggire un punto che particolarmente gli sta a cuore: la poeticità della lastra. Per Bonaldo, poeticità è sinonimo di partecipazione sentimentale, vale a dire aderenza tra il creatore e ogni sua fibra, anche la più intima, e l’oggetto rappresentato”. Detto con le parole e il modo di un ragazzo poco più che ventenne, non cambierei nulla, oggi che Guerrino non c’è più, per esprimere il senso della sua opera. La luce sospesa della poesia, adagiata sul segreto della vita, sulla sua evocazione di un respiro cosmico che si fa assenza luminosa, ed essenza, che si fa sostanza dell’universo. Ma sempre partendo dall’hortus conclusus del fiume, delle colline, delle campagne, delle lagune, degli alchechengi, dei melograni. O i molini, i filari, le grandi case di campagna, i ricci, le nespole, il calicanto. Sì, il profumo invernale del calicanto nelle nostre campagne.



E’ stato sempre un prodigio silenzioso di apparizioni, che non avevano la carnalità del segno barbisaniano, pur talvolta ricordandone la catalogazione del mondo, ma solo quella. Perché Bonaldo − nato dentro la fascinazione, netta di volumi, per un autore oggi ingiustamente dimenticato, Mario Dinon, suo insegnante di incisione all’Accademia di Venezia − ha soprattutto sentito dentro di sé, catturandone l’anima più segreta, la poesia irraggiungibile del segno libero e pieno di vento e luce del grande Rembrandt. Soprattutto quello di certi sublimi paesaggi, nei quali il mondo pare farsi e comporsi solo di luce e solo di luce. Di nient’altro che la luce. Bonaldo ha percorso questa strada, e pare ancora di rivederlo girare per la campagna, tra un’acqua che scorre e un temporale imminente, a tracciare segni come i versi che si compongono per la persona amata. Treviso dovrà presto onorarlo, dedicandogli una mostra. —



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