Giancarlo Zanatta, mister Moon Boot: l’uomo che ha fatto le scarpe al mondo

TREVISO. «Ma va ancora in fabbrica, tutti i gior...» «Sìcerto». Federico Buffa non fa nemmeno in tempo a finire la domanda: Giancarlo Zanatta gli risponde sopra, tutto d’un fiato. Abituato com’è a raccontare i campioni (da Michaeal Jordan a Muhammad Ali, nel suo format amatissimo dagli appassionati), il giornalista-aedo milanese è a proprio agio, nonostante questo insolito cambio di settore, dallo sport all’impresa.
Diario del fare. Giancarlo Zanatta un campione lo è davvero: 81 anni portati con una lucidità disarmante, pioniere del distretto montebellunese della calzatura sportiva, fondatore del gruppo Tecnica (400 milioni di euro di fatturato), Zanatta ha presentato ieri a Palazzo Giacomelli di Treviso la sua autobiografia, «Diario del fare». A Buffa è bastato far saltare il tappo di una riservatezza scritta nel dna, di Zanatta e della sua terra, per dare il via a un piccolo big-bang di ricordi.

L’incidente. Come tante storie incredibili, anche questa inizia con una sliding-door: è il 1873 quando a un bambino che cammina nel bosco «cade addosso un grosso ramo e si rompe una gamba», racconta Giancarlo. Quel bambino era suo nonno, e il destino lì cambia strada: con i postumi di quel brutto incidente, quel bambino crescerà senza essere in grado di portare avanti il lavoro di suo padre, ovvero il contadino. «Per chi non aveva gambe buone restavano solo due lavori, all’epoca – racconta ancora Giancarlo – il sarto o il calzolaio».
I figli. Se siamo qui a raccontare la storia dell’impero-Tecnica, avrete già capito che il nonno di Giancarlo non ha fatto il sarto. Ha iniziato come calzolaio, attività portata poi avanti da suo figlio Oreste, padre di Giancarlo. «E io ho seguito la tradizione familiare fin da bambino, quando mi facevano raddrizzare con i sassi del Piave i vecchi chiodi per riutilizzarli». Una miniera di aneddoti che è diventata un libro (il ricavato delle vendite andrà in beneficenza per la ricerca contro il cancro) grazie ai figli di Giancarlo: Alberto, Monica e Sandra. «Sono stati loro a insistere perché scrivessi i miei ricordi. Ho iniziato quattro o cinque anni fa, durante un viaggio per i cinquant’anni di matrimonio. Poi ho abbandonato un po’, ma loro sono tornati alla carica».
l’impronta ovale . Facciamo un salto in avanti, perché c’è un’altra svolta del destino. Qui non c’entrano i rami, bensì il genio e l’intuizione. È il 1969. «Ero alla Grand central station di New York per incontrare un importatore americano. Appesa c’era una foto dello sbarco sulla luna di poche settimane prima. Mi colpirono lo scafandro ma soprattutto l’impronta, così innaturale, ovale. Ho fatto scarpe con le mie mani, una cosa del genere non l’avevo mai vista». Il germe era piantato. «Già sull’aereo di ritorno in Italia ho iniziato a disegnare alcuni schizzi e a pensare al nylon come materiale, proprio come per gli astronauti». Quegli schizzi sono diventati 25 milioni di paia venduti in cinquant’anni: ora il Moon Boot è esposto anche al Museum of modern art di New York.
Sogni di plastica. «Prima di intervistare Zanatta, solo un’altra vota ero stato così in difficoltà – racconta Buffa – ed è quando l’ho fatto con Andre Agassi. Lui aveva vissuto praticamente sette vite, io una. Con Zanatta è lo stesso». E prima della vita dei Moon Boot ce n’è un’altra, ancora da pioniere e ancora con l’America sullo sfondo. «Nel 1967 ho fatto il mio primo viaggio negli Stati Uniti – racconta Giancarlo – e a Denver ho visto un paio di scarpe fatte interamente di plastica. Le ho comprate, cento dollari. Tornato a casa ho convocato una riunione di famiglia: quella era la rivoluzione da seguire. In Europa all’epoca c’erano trenta produttori di scarponi da sci. Tutti in cuoio». Il vero boom nasce da lì: sei mesi di lavoro per mettere a punto gli stampi con un fornitore della Fiat, poi il mercato decolla. Anche in Cina e Giappone, perché Zanatta è uno dei primi a capire le potenzialità di quei mercati. Torna da Tokyo con un ordine di tremila paia, di quegli scarponi di plastica: «Volavo io, non l’aereo».
I pizzini. Gli aneddoti sarebbero infiniti: la scuola mollata a 16 anni («Mi volevano ragioniere in banca, io volevo fare scarpe»), il corso di modellista a Milano, un lavoro a Treviso («Andavo in bici, quaranta chilometri al giorno andata e ritorno, ma mi appendevo ai furgoni se potevo»), poi l’allergia a stare “soto paròn”: le sue idee dovevano avere briglie sciolte. Oggi, a 81 anni, va ancora a Giavera in azienda ogni giorno, a meno che non sia in giro in quelle del Gruppo Tecnica sparse per il mondo. Non è più presidente, l’azienda è guidata dal figlio Alberto e dal manager Antonio Dus. «Ma da ogni viaggio torno con un foglietto, scrivo a mano ciò che secondo me non va. Lo do ad Alberto e Antonio, poi decidono loro se ascoltarmi o no». Lo faranno? Chi ha dubbi alzi la mano.
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