«È la stampa, bellezza»

«È la stampa, bellezza, la stampa. E tu non ci puoi fare niente, niente». È la battuta finale che Humphrey Bogart pronuncia nel film, L’ultima minaccia mentre, al telefono con il gangster Rodzich, gli fa sentire il rumore delle rotative che stanno stampando il giornale con le prove contro di lui. È una delle più appassionate difese che il cinema ha dedicato al “quarto potere” uno dei tanti rivoli del “newspaper movie”, genere sterminato e lungo un secolo, affollato dei ritratti giornalistici più vari: reporter senza scrupoli, magnati dell’editoria, crusader votati alla verità e professionisti spietati. Cinema e giornalismo vivono da sempre un rapporto simbiotico, in cui realtà e finzione si rincorrono e alimentano la fantasia di giornalisti e non, aspiranti reporter o affermati cronisti alla ricerca della storia perfetta, soprattutto se la verità sembra impossibile da raggiungere. Non è forse un caso che il film più citato del genere, opera capitale nella storia del cinema - il Citizen Kane di Orson Welles che nella distribuzione italiana diventa, appunto, Quarto potere - si apra con il cartello appeso al cancello della residenza-castello del magnate della stampa che ammonisce “No trespassing”. Un divieto di accesso che impedisce l’ingresso in quei luoghi ma soprattutto alla verità sulla vita del protagonista che nel film di Welles si perde nella trama labirintica di sei flashback, intorno all’enigma di “Rosabella” nel tentativo di scoprirne il significato. Verità sempre e a tutti i costi, come insegna un’altra pietra miliare del cinema dedicato al giornalismo d’inchiesta: Tutti gli uomini del Presidente di Alan J. Pakula racconta una delle pagine più esaltanti nella storia della carta stampata, con la coppia Redford-Hoffman nel ruolo dei cronisti del Washington Post, Bernstein e Woodward, che con la loro indagine fecero esplodere lo scandalo Watergate. Il senso dello spettacolo e il rigore della messa scena restituiscono l’immagine di una stampa che la “gola profonda” del film confessa di non amare per la sua superficialità, ma che qui rivendica un ruolo civile di primo piano anche quando i giornalisti alla riunione del mattino scherzano sarcasticamente di fronte alla possibilità che una notizia non sia del tutto autentica: «Se non è vera dovremmo tutti andare a lavorare per vivere». O vivere per lavorare perché al cinema il giornalista non ha pace né riposo e l’abbigliamento diventa lo specchio di un mestiere che non consente di dedicarsi ai vezzi e alla cura della persona. Cappello malandato, svestito sgualcito e giacca con le toppe sui gomiti diventano parte integrante dell’immagine dei giornalisti d’inchiesta. Quelli che non dormono, si alzano con la faccia stropicciata e vengono premiati con il Pulitzer: come accade al team del Boston Globe ne Il caso Spotlight, capace di rivelare lo scandalo, di proporzioni inimmaginabili, degli abusi sessuali sui bambini perpetrati da preti aguzzini o conniventi. Caccia agli orchi ma anche alle streghe di una America antidemocratica, come quella che George Clooney denuncia in Good night and good luck ai tempi del maccartismo, riflettendo sulle origini e sui meccanismi del mezzo televisivo. Siamo giunti al passaggio, il più delle volte aberrante e sensazionalista, dal quarto al Quinto potere, come il titolo del film di Sidney Lumet, in cui il binomio “indice d’ascolto e morte” diventa il mantra dei vertici di un network disposti a tutti pur di fare audience. Anche ad “accomodare” la scena del delitto se può servire: Louis Bloom/Jake Gyllenhaal non esita a farlo ne Lo sciacallo, pur di vendere i suoi servizi ai notiziari e scalare i vertici di una emittente televisiva votata alla fascinazione morbosa per la violenza, in cui basta creare immagini spogliandosi di qualsiasi responsabilità. È quello che si definisce “yellow journalism” che il cinema di Billy Wilder aveva già anticipato di parecchi anni nel 1951, portando sul grande schermo con L’asso nella manica la storia di un giornalista cinico (Kirk Douglas) che prolunga la prigionia di un minatore sepolto vivo per montare uno scoop e risollevare la propria carriera. Luci e ombre, insomma: il giornalismo, il più delle volte, si muove in quella terra di confine tra etica e ambizione, informazione e macchina del fango. Sono le diverse facce del Diritto di cronaca che Sidney Pollack condensa nella vicenda di Megan Carter/Sally Field che, sfruttando una informazione confidenziale, sbatte un innocente in prima pagina pur cominciando a interrogarsi sul proprio operato. Perché alla fine c’è sempre un dazio da pagare, soprattutto se si vuol tornare al punto di partenza, cioè alla verità. Quella che cerca Cate Blachett protagonista di due film diversi in cui ritorna, almeno nei titoli italiani, il concetto dello scotto da pagare sull’altare dell’informazione: Veronica Guerin: il prezzo del coraggio e Truth il prezzo della verità raccontano due episodi di sconfitta con l’enfasi della vittoria. In fondo, cinema e giornalismo hanno sempre cercato e cercano la stessa cosa: storie da raccontare al proprio pubblico, rimanendo entro i confini del vero o del verosimile oppure varcandoli, noncuranti del monito di Orson Welles di restare fuori, di fermarsi di fronte a “Rosabella”, il nome/rompicapo che da solo non può spiegare tutto e che, forse, oltre la cenere di un fuoco, altro non cela che il mistero più antico e ambiguo del mondo: il rapporto tra verità e finzione, realtà e apparenza.
Riproduzione riservata © Tribuna di Treviso