Tre metri sotto l’acqua Motta, i giorni in barca

Le situazioni di Piave, Livenza e Monticano, nella notte del 4 novembre del 1966, hanno un’unica matrice. E l'alluvione ha le medesime cause: in montagna è nevicato e, di colpo, dopo il giorno dei Santi e quello dei Morti, lo scirocco comincia a soffiare intensamente, sciogliendo le nevi e, contemporaneamente, facendo alzare il mare. Che non riceve più i fiumi e anzi inizia ad invaderli insieme alle terre litoranee. In pianura piove in modo incessante, poi anche con intensità, mentre più a nord, in Friuli e nel Bellunese, i disastri sono già iniziati. Alle 3.25 del 5 novembre, in località San Giovanni, a nord del centro abitato di Motta, l'argine destro del Livenza fa crack. Un boato e poi la piena eccezionale del fiume trova, purtroppo, sfogo. Dalla falla formatasi sulla riva "debole", circa 150 metri di improvviso vuoto, esce l'acqua-creta che arriva da "lassù" e non sfoga "laggiù". Una massa furibonda che in poco tempo allaga i campi e i borghi, per poi arrivare, alle 5 del mattino, inesorabilmente alla città di Motta e ai paesi dintorno. La misura della sciagura è già chiara, in alcuni punti il livello è di tre metri sopra il piano-campagna. Pochi sono riusciti a a salvare il salvabile con carri e camion, barche e zattere improvvisate tentano in ritardo la medesima operazione. Chi può si rifugia ai piani superiori di casa, mentre quella melma piena di tutto (e le tracce della nafta da riscaldamento resteranno a lungo sui muri dei fabbricati e sulle colonne del centro) prosegue il suo cammino in forma di canali e fossi che prendono il posto di strade e viuzze. Non c'è pace. L'energia elettrica non c'è, ci si arrangia come si può, la gente si chiama di casa in casa per darsi una mano, per sgomberare almeno le cose essenziali. Arrivano rinforzi, specie dall'esercito, per andare a salvare chi in campagna è rimasto isolato e attende ai piani alti o sul tetto l'arrivo di qualcuno. L'angoscia è infinita: crescerà ancora, l'ondata, o si fermerà finalmente? Di dormire non se ne parla proprio, negli occhi dei bambini e degli animali domestici si legge il terrore. Al sorgere alle prime, giallognole luci dell'alba, quel che si rivela agli occhi delle popolazioni rivierasche è una specie di apocalisse. L'acqua non si alza più, ma nemmeno cala; per due giorni Motta e il Mottense sono sotto scacco, irraggiungibili e sott'acqua. Cibo, acqua pulita e potabile, coperte, vestiti? C'è una specie di "protezione civile" spontanea, coordinata dai militari, ma con l'handicap della totale sorpresa. Per fortuna non fa il freddo di stagione, ma c'è poco da rallegrarsi: è stato il maledetto scirocco a portare il caldo, assieme all'alluvione. La gente, alla luce del giorno, misura i danni alle case. I vecchi edifici hanno i muri spessi, ma a volte non hanno fondamenta e le crepe s'allargano. In alcuni casi l'intera parete frana nell'acqua. Attorno, galleggia di tutto, dai mobili agli alimenti, dalle carcasse dei maiali e mucche annegati nelle stalle ai frigoriferi e alle cucine a gas comprati grazie al primo benessere. Qualcuno tenta addirittura di far salire le scale alle “bestie” per ricoverarle all’asciutto, ma le varie “Bisa” e “Nerina” si rifiutano e vanno incontro alla fine di quelle rimaste legate in stalla. L’ospedale non si salva da questa maledizione in forma liquida, barchini dal fondo piatto si aggirano per i viali tra i reparti, infermieri e soldati aiutano a trasferire alcuni pazienti anziani. Uno di questi muore e rimane in corsia, non c’è modo di trasportarlo in altri luoghi, tantomeno nella camera mortuaria dove giace, dimenticato e sott’acqua, Giovanni Masutti di anni 79 da Cessalto. L’affollamento ai piani superiori diventa dolente, manca l’acqua potabile, di sopra. Sotto c’è acqua mista a nafta e terra.
Una piccola fortuna: a Motta l’esercito è di casa, la caserma Vittorio Veneto è giusto fuoriporta e il comando della divisione corazzata Ariete ha già i suoi uomini in allarme nella notte del 4, quando dal Monticano arriva il primo ordine di far confluire i genieri sulle rive per rinforzarle. Una compagnia al gran completo viene intanto impiegata per sgomberare Prata e Portobuffolè . Barchini e fuoribordo sono già sguinzagliati a Colfrancui, Oderzo, Portogruaro, Ceggia, Meduna, Gorgo e Ponte di Piave, dove il fiume sacro alla patria si sta comportando in modo folle, tornando sui propri passi invece di sbucare a mare. Il personale militare di stanza a Motta è a San Giovanni quando il Livenza rompe l’argine destro, raggiungendo in fretta la città. Ma la caserma stessa va velocemente sotto, con l’acqua che lambisce il primo piano. Ai militari vengono comunque dati i compiti di sgombero, fornitura di acqua, letti e pasti caldi, nonchè vigilanza per tenere gli sciacalli lontani dalle abitazioni abbandonate. I contadini, i capi famiglia e i figli più grandi, stentano a lasciare la zona delle loro case immerse nell’acqua, provano a salvare, in alto sulle “tezze”, almeno gli strumenti di lavoro. Anche nell’azienda agricola dei frati si tenta di portare le mucche al primo piano e di mettere in salvo galline e maiali. Frate Francesco Zanettin racconterà con una certa vivacità: «Avevamo dimenticato quei poveri suini che tanto esemplarmente si erano impegnati per lungo tempo a ingrassare per rendere felice, in un prossimo futuro, la parca mensa dei frati. Sarebbe stata una vera misconoscenza, oltreché una non lieve perdita, se avessimo lasciato perire le altruistiche creature dal codino arricciato». I maiali nuovano bene e i frati li “guidano” verso la salvezza, ma a un certo momento fanno dietrofront. Dopo una vera e propria caccia ai “discoli”, i frati li fanno salire su una “mesa”, ovvero una barca a fondo piatto, e li portano in salvo sul granaio.
C’è anche un allarme sanitario: non appena il tempo dà tregua è chiaro che le carogne degli animali non possono restare dove sono, impigliate qua e là e già gonfie. Ecco allora che gli stessi militari cominciano a organizzare il recupero e il trasporto delle carcasse in zone dove vengono bruciare o coperte con la calce viva.
Sotto gli occhi degli agricoltori transitala mesta processione di quelle “ex ricchezze” che avevano il compito di sostenere - talvolta in toto, l’economia di famiglia. Mentre sui terrapieni marcia un piccolo esercito di carri e biciclette con il pollame legato al manubrio.
C’è bisogno di tutto e la gara di solidarietà delle zone d’Italia dove il maltempo non ha fatto disastri è già partita. Addirittura da una parrocchia di Fossano, in provincia di Cuneo, ai frati del santuario arrivano cibo, medicine, coperte, latte in polvere. Il tutto viene distribuito tra la popolazione ricoverata in paesi “esterni” alla zona alluvionata. Comunque l’attesa per tornare è più lunga del previsto. Solo l'8 novembre il cielo e il mare danno pace e l'acqua inizia nuovamente a scorrere nel giusto alveo. È molto, se si pensa a quei quattro giorni senza speranza, ma sarà un Natale gramo per molti, anzi per quasi tutti. E qualcuno in quelle case non tornerà mai più; altri s'illuderanno di non passare più le notti svegli a guardare l'acqua che cresce sulla riva, invece a tradire saranno ancora Livenza e Monticano, appena qualche anno fa, seminando angoscia e risvegliando tristi ricordi.
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