Principe Umberto, cent’anni dalla tragedia

Piroscafo affondato nel 1916, cerimonia all’ex caserma Serena fra autorità e profughi con il tricolore
Di Daniele Ceschin*

di DANIELE CESCHIN*

Ci sono pagine di storia che sono uniche. Anche se poco conosciute. La Grande Guerra per la provincia di Treviso significa il Piave, il Montello, il Grappa. Eppure il sacrificio maggiore, quello che avvenne tutto assieme, si registrò in Albania, di fronte a Valona. Una tragedia che non si tradusse in un lutto pubblico, perché non poteva esserlo. Quella sera dell’8 giugno 1916 accadde tutto in un attimo: un siluro lanciato da un sommergibile austriaco che nemmeno si aspetta di vedere passare un convoglio di navi italiane, lo scoppio delle caldaie, il piroscafo “Principe Umberto” diretto a Taranto che si spezza in due tronconi e affonda in pochi minuti, il mare che inghiotte 2.821 tra soldati e marinai e ne uccide 1.926.

I fanti annegati appartenevano quasi tutti al 55° reggimento fanteria (inquadrato nella Brigata Marche), un reparto che era un tutt’uno con la città di Treviso, dove aveva la sua sede dal 1908, e con la sua provincia dalla quale provenivano oltre un quarto delle vittime. Infatti, se i morti veneti furono 695, ben 521 provenivano dalla provincia di Treviso, da 92 comuni diversi: 24 erano di Treviso, 20 di Oderzo, 19 di Vedelago, 15 di Paese, 11 di Montebelluna, 11 di Roncade, 11 di Spresiano, 10 di San Biagio di Callatla, 10 di Fontanelle. A seguire quasi tutti gli altri comuni. Dei 9.331 caduti in guerra della provincia di Treviso, 521 (oltre il 5%) morirono tutti assieme in pochi metri e in pochi istanti. Gli altri erano fanti di una quarantina di province italiane.

Un testimone ha raccontato nelle sue memorie: “Si sentivano gridi dai piroscafi, gridi soffocati da quei poveracci che si gettavano nell'acqua, ma non potevano avere aiuto da nessuno perché i nostri due piroscafi che, non appena fuori dal porto, fecero dietro fronte e ci rinchiusero di nuovo nel porto dove stavamo al sicuro perché nel porto vi era terra di qua e terra di là. I poveri disgraziati soldati del 55° e del 56° furono circa completamente annegati”. I naufraghi rimasero in acqua due ore prima di essere recuperati dalle siluranti e soccorsi. Le salme restituite dal mare vennero sepolte a Valona e dopo la guerra trasferite a Bari.

Ma per quale motivo il 55° fanteria nel 1916 si trovava in Albania? L’anno prima, con l’entrata in guerra, aveva raggiunto la linea del Cadore e delle Dolomiti dove era stato subito impegnato in aspri combattimenti. In particolare si era distinto sul monte Piana, dove aveva combattuto una figura come Bepi Corazzin, il sindacalista bianco, poi fondatore del Partito Popolare. Nell’autunno del 1915 il trasferimento dei fanti biancoazzurri sull’Isonzo, nella zona del Monte Sabotino, e quindi nel febbraio 1916 un nuovo fronte, quello albanese, per provvedere alla costruzione di trincee e di opere di difesa e per gestire i prigionieri dell'esercito austro-ungarico catturati dalle truppe serbe. In primavera Cadorna decideva il rimpatrio della Brigata Marche per arginare la «Strafexpedition» sugli Altipiani. Quindi la partenza e la tragica fatalità. Tutto ciò che accadde dopo l’8 giugno ha poca importanza, anche se il ricostituito reparto del 55° reggimento avrebbe poi partecipato, sempre nel 1916, ai combattimenti alla Trincea delle Frasche e alla presa di Gorizia. Il resto fu ordinaria amministrazione. Alla fine della guerra il 55° aveva lasciato sul campo 3.742 morti. Contano questi numeri e conta la memoria di quel fatto, il monumento del 1922 a ricordo di quella immane tragedia che tutti i trevigiani dovrebbero conoscere per restituire un volto a quei 521 fanti biancoazzurri morti annegati lontano dal Piave, davanti a Valona.

*storico

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