Preti in crisi: soli, delusi, sotto pressione «In discoteca per parlare con la gente»

Papa Francesco raccomanda ai preti, come pure ai vescovi, di odorare di pecora. I giovani, altrimenti, non si mettono in gioco; e i seminari di Treviso e Vittorio Veneto non sono così pieni come un tempo, quello di Belluno addirittura è stato costretto a chiudere. E i vescovi costretti ad accorpare le parrocchie, seppur senza fonderle, come si è fatto con le 29 Collaborazioni pastorali a Treviso e le Unioni pastorali a Vittorio Veneto. I parroci a scavalco saranno costretti a fare sempre di più le corse fra un funerale, una messa e una riunione nell’una o nell’altra parrocchia. «È esattamente quanto mi capita», racconta don Mirco Della Torre, che a Sernaglia ha la responsabilità anche delle parrocchie di Falzè e Fontigo. «Talvolta ci sentiamo sfiancati, non abbiamo più forze. E ci cattura la delusione perché abbiamo l'impressione di gestire il supermercato dei sacramenti, non avendo più il tempo della relazione umana, passaggio obbligato per quella spirituale».
La stanchezza fisica non è nulla rispetto a quella psicologica che, talvolta, si traduce perfino nell'apatia spirituale. Chi si sveglia all'alba, a Parè di Conegliano, vede l'anziano parroco, monsignor Fausto Scapin, andare su e giù per il piazzale della chiesa leggendo il breviario. Solo dopo va in edicola a prendersi il quotidiano. Ma tanti giovani preti non leggono né il breviario né s'informano di quanto accade.
I giovani, appunto. «Sì, ce ne sono di così, ma non facciamo di ogni erba un fascio», raccomanda don Federico de Bianchi, 41 anni, di Vittorio Veneto. «Io, per esempio, non mi avverto in solitudine. E come me so di altri preti. Ma quando ti capita che per giornate intere non senti bussare alla porta della canonica, oppure, al contrario, ti tirano giù dal letto, di notte, anche per delle sciocchezze, è evidente che si rischia di schiantare».
Don Federico è prete dal 2003. Lo incontriamo a Santa Giustina di Vittorio Veneto, dove è parroco, di ritorno dal mercato del lunedì a Serravalle. Non ha nessuna borsa della spesa. «Nessuna ombra, due caffè, ma ho parlato con tanta gente, soprattutto con tanti anziani che curiosano fra le bancarelle senza acquistare, perché non hanno soldi. E se li hanno, li mettono da parte per i figli disoccupati».
Ecco, uno dei problemi che maggiormente preoccupano i preti, quelli appunto che odorano di pecora: la disoccupazione. Il fatto, cioè, di non saper dare risposta alla disperazione dei giovani, dei loro genitori, degli stessi nonni. Fino a qualche anno fa le canoniche erano un ufficio di collocamento. «Ne so qualcosa», ammette don Fausto. «Oggi non ci resta che piangere insieme a chi è costretto ad aspettare che la crisi finisca chissà quando». Don Chicco, come viene chiamato affettuosamente dai suoi ragazzi, piglia uno “stipendio” come tutti gli altri preti: 1.100 euro al mese. Monsignor Scapin, al termine della carriera, qualcosa di più. Anzi, è già in pensione. Ma da parroco in quiescenza (sulla carta) ha rifatto il tetto della chiesa e - miracolo -, in pochi mesi, nonostante la crisi, sta finendo di pagarlo. Nessuno di questi preti si fa la cresta con qualche offerta. Don Federico ha voluto che le elemosine come le altre risorse della parrocchia fossero gestite da un “procuratore”, un laico, persona dunque estranea, ma autorizzato dal vescovo.
Oggi come oggi un prete non ha assolutamente problemi di sopravvivenza economica. Anche se gestisce due parrocchie, su un'area estesa come capita appunto a don Chicco. Circa una dozzina di chilometri, da Santa Giustina a Fadalto, una valle in cui un tempo operavano ben 4 parroci. Ma don Chicco trova il tempo perfino per andare al pub, in discoteca, nei locali frequentati dai giovani. Non per divertirsi, ma «perché se i giovani non vengono da me, sono io che vado da loro». Domenica sera, dopo le messe festive, si è fiondato al Mamilla di Conegliano. Balla ma soprattutto chiacchiera. Nessuno immagina che sia un prete, ma lui come tale si presenta. E basta scorrere la sua pagina Fb per certificare gli apprezzamenti che raccoglie. «Aspettare i ragazzi in canonica o in patronato è una delusione, che può essere fatale. Ti cattura la delusione, lo sconforto, appunto la solitudine e la depressione. In questa nuova frontiera della pastorale, invece, trovi tante persone che hanno voglia di parlarti, di raccontarsi, di confidarsi. Certo, devono fidarsi di te, per cui devi essere cauto e prudente nell'approccio. E devi essere anche disposto a portarli a casa, se hanno alzato il gomito. Come spesso mi capita di fare». Don Chicco ha conosciuto un sacco di ragazze, in questo modo. Mai innamorato? «No, mai. Perché mai mi sono nascosto, mai ho cercato il sotterfugio. E, d'altra parte, se Katty o Giorgia ballano con me, sanno che lo fanno con un prete. Quindi anche loro si responsabilizzano».
In oratorio, a Parè, i ragazzi ci vanno. Ma insieme a loro, gruppi di coetanei cinesi, o marocchini. E l'integrazione, si sa, fa problema. Uno dei tanti problemi, anche esistenziali, per un prete che più di ogni altro ritiene che tutti, bianchi e neri, siamo figli di Dio. «E' vero, ci mancherebbe, ma io, qui a Santa Giustina, ho dovuto negare il campo di calcio ai profughi del Ceis, per rispettare il comune sentimento della mia gente», ammette don Federico. «Se si fa il prete secondo gli schemi tradizionali, i rischi di scorciatoie sono molto elevati», conclude, «E poi basta una Savno che ti aumenti la tassa dei rifiuti della scuola materna, portata avanti con estrema fatica, per sbottare: adesso basta. E di botta in botta, se non hai le spalle solide ed i saggi aiuti, può arrivare il tempo in cui molli».
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Riproduzione riservata © Tribuna di Treviso