Nei laboratori del Ca' Foncello di Treviso dove si combatte il batterio killer

Presentato a Treviso il documento che aiuterà i medici a sconfiggere Chimaera È firmato dal dottor Scarparo che l’ha scoperto e battezzato: «Lo studio continua»
tome agenzia fotofilm treviso ospedale cà foncello conferenza stampa microbiologia
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Nel laboratorio dell'ospedale di Treviso dove si combatte il batterio killer

TREVISO. «Siamo di fronte a un evento nuovo. Per sconfiggere il micobatterio Chimaera è necessario unire le nostre forze e condividere le conoscenze». Non ha dubbi il dottor Claudio Scarparo, primario dell’Usl 3 Serenissima, l’esperto che a livello mondiale ha identificato per primo nel 2004 il pericoloso patogeno, risultato poi letale per 9 pazienti operati al cuore ricorrendo al macchinario per la circolazione extracorporea del sangue (ecmo).

La casistica nota riguarda solo Veneto ed Emilia Romagna, ma il problema Chimaera potrebbe essere molto più ampio, visto che i dispositivi finiti sotto accusa sono 218 in Italia. «Per trovare il micobatterio occorre cercarlo attentamente», aggiunge Scarparo.

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Il Veneto è la regione che in tale ambito ha fatto i maggiori passi avanti al riguardo. Ora la sfida è di evitare che il nostro Paese viaggi a velocità diverse, in termini di diagnosi e cura del Chimaera: proprio per questo, l’Associazione dei Microbiologi Clinici Italiani (Amcli) ha realizzato un documento con tutte le conoscenze acquisite fino ad oggi sul minaccioso germe.


Il testo è stato presentato ieri mattina in anteprima nazionale all’ospedale Ca’Foncello di Treviso, dove opera Roberto Rigoli, primario dell’Usl di Marca nonché vicepresidente dell’Amcli, che ha riunito Scarparo e altri otto esperti per stilare il vademecum che verrà utilizzato dai medici e dai microbiologi di tutti gli ospedali italiani.

IL DOCUMENTO. «Il nostro gruppo di lavoro, composto da clinici e universitari, ha ideato delle linee guida per mettere in comune le informazioni e dare una traccia utile a tutti i colleghi in Italia», spiega Scarparo. Il documento sarà inviato alle 50 microbiologie d’Italia e ai laboratori che vi afferiscono. Un corredo di indicazioni preziose per mettere in sicurezza le sale operatorie con gli apparecchi per l’ecmo, ma anche una serie di ragguagli sui sintomi e sui pazienti a rischio. Notizie che sono il frutto di 15 anni di lavoro. Tutto ha avuto inizio nel 2004, quando il dottor Scarparo ha isolato per la prima volta il Chimaera.

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LA SCOPERTA. «All’epoca avevamo 12 casi di pazienti anziani con patologie respiratorie, e ci siamo concentrati su alcuni ceppi di batteri non tubercolari riscontrati nel loro organismo. Le analisi molecolari ci misero di fronte a dei dati discrepanti: quei batteri avevano caratteristiche del complesso avium e intracellulare, ma non erano perfettamente sovrapponibili né all’uno né all’altro», ricorda Scarparo. Indagandone il Dna gli esperti si sono trovati davanti a un fatto inedito: la scoperta di un nuovo micobatterio.

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«Abbiamo scelto di chiamarlo Chimaera come l’animale mitologico con testa di leone, ventre di capra e coda di drago, per via dell’aspetto multiforme», prosegue Scarparo. In quel periodo non era ancora esploso il caso dei macchinari per l’ecmo contaminati da Chimaera e il micobatterio non aveva manifestato caratteristiche letali ma solo la sua propensione ad albergare in alcuni pazienti con malattie polmonari. La mappatura del germe ha fornito ulteriori risposte.

«Il Chimaera è ubiquitario, cioè si trova nell’ambiente, è subdolo perché crea un biofilm (cioè una sorta di pellicola che può fare da scudo alla sanificazione ndr) ed è opportunista, cioè genera patologia quando ha l’opportunità di farlo», prosegue il luminare. La chance, purtroppo, è arrivata attraverso i macchinari per l’ecmo.

«Il Chimaera ha contaminato le vasche d’acqua degli apparecchi e quando si è creato aerosol all’interno della sala operatoria, paziente e ferri chirurgi sono stati esposti alla contaminazione. È così che il Chimaera finisce nell’organismo del paziente a cuore aperto e ha l’opportunità di sviluppare una grave infezione». Il meccanismo, scoperto nel 2016, continua a essere oggetto di studio. Ma la vera incognita da superare riguarda la cura dell’infezione da Chimaera, che spesso si rivela fatale. «Dobbiamo capire quale sia l’approccio terapeutico ottimale», conclude Scarparo, «stiamo studiando il mix di antibiotici che può vincere la resistenza. Non abbiamo ancora il quadro completo». 

 

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