Nei campi con i vu’-vendemmià Bianco e nero sono solo vini

il reportageBianco e nero. Non sono razze. Son vini. Sulle viti ci sono Manzoni (bianca) e Pinot (nera). Bianche sono le due “cape” le sorelle Graziella e Gloria Cescon dell’omonima cantina. Neri...
frigo agenzia fotofilm san polo profughi vendemmia a. agricola italo cescon
frigo agenzia fotofilm san polo profughi vendemmia a. agricola italo cescon

il reportage

Bianco e nero. Non sono razze. Son vini. Sulle viti ci sono Manzoni (bianca) e Pinot (nera). Bianche sono le due “cape” le sorelle Graziella e Gloria Cescon dell’omonima cantina. Neri almeno una quarantina di vendemmiatori, quasi tutti provenienti dalla cooperativa sociale Il Girasole, originari da mezza Africa. Siamo a San Polo, a Borgo Bianco. E siamo a raccontarvi quello che per qualcuno è un fenomeno: i neri che lavorano i nostri campi: “tirano giù” l’uva e la appoggiano con cura in enormi casse, moderno sostituto delle vecchie gerle con cui, un tempo, si provvedeva all’uopo. Quelle di oggi sono prelevate da un trattore –muletto. Anche questo guidato da un extracomunitario, indiano. Ed erano indiani, qui a San Polo, i primi vendemmiatori immigrati, una decina di anni fa.

Gli africani

Gli africani sono arrivati in tarda mattinata, causa pioggia, dopo aver fatto colazione a cura della azienda Cescon che li ha ingaggiati. «Tutto in regola – assicura “zia Graziella” – paga oraria, pagamento in euro perché i voucher son riservati a un numero inferiore di addetti; pause previste e nessun paragone con quelle cose dei pomodori pugliesi a 2 euro l’ora. I ragazzi si distribuiscono in due o tre per filare e procedono spediti. Non è come un tempo, con le vendemmiatrici che cantavano per tenersi compagnia. Una cosa sembra accomunarli, da quelli che arrivano dal Niger a quelli del Senegal o del Gambia: l’orgoglio di guadagnarsi la giornata. Al nome di Salvini si girano dall’altra parte: non cercano rogne, né rivincita. «Pensiamo solo a lavorare, non abbiamo in mente altro», dice Kumar Raj, l’indiano che guida il muletto. Lui è qui da 10 anni. «La prima volta mi misero a strappare erba sotto le viti con le mani, adesso ci pensano i macchinari. Da tre anni mi ha raggiunto la mia famiglia, i figli studiano entrambi informatica alle superiori: la ragazza fa il terzo anno, il ragazzo il primo. Noi indiani siamo portati per la matematica e l’informatica. E poi il futuro è lì». Insomma, è più leggero lavorare alla vendemmia se hai speranze da dare ai tuoi figli. Qui attorno, un tempo, c’erano fabbrichette di ogni tipo: dagli attaccapanni alle minuterie in plastica per i mobili. Restano gli scheletri colorati, vuoti, qua e là. Ha resistito la vite, la santa vite: ora è tutta una cantina. Con tanto di “benedizione” culturale e storica. La “Cescon Italo Storia e Vini” di Roncadelle ne è la prova. Qui la Liga Veneta ha ancora i suo zoccolo duro.

salvini chi?

«Abbiamo bisogno di braccia che lavorino a tirar giù l’uva nelle campagne e non stiamo a guardare di che colore sono quelle braccia. Con tutto il rispetto per Salvini», dice la Graziella. E la sorella Gloria è ancor più dura: la campagna le ha forgiate così. Quando le chiediamo se, essendo pagati a ora, i loro africani vogliono lavorare anche con la pioggia, la Gloria s’impunta e replica: «Quando piove non si vendemmia. E poi – caro cittadino che non sai le cose – l’uva bagnata non va bene, fa muffe e non fa qualita». Accanto a noi che ci offriamo di spiccar grappoli rischiando di incorrere nelle ire dell’ispettorato del lavoro, in filare c’è un ragazzone occhi luminosi e sorriso aperto.

i raccoglitori

Anche Barry Seku, arrivato dal Mali, è stato prelevato, stamattina, dal pullman di Adriano alla cooperativa Il Girasole di Busco, per essere portato sulla vigna, seguìto dai suoi stivali (con il nome scritto), dalla sua forbice da potatura e dal “vassoietto confezionato” con il pranzo. Barry è arrivato nel 2016 con il barcone. Dopo due anni, venerdì è passato in Prefettura per firmare la richiesta di riconoscimento dello stato di rifugiato e spiega: «Io non voglio fare soldi e tornare indietro. In Mali non mi aspetta nessuno: nei bombardamenti del 2013 ho perso tutta la famiglia. Sono arrivato in barcone: non avevo nessuno che pagasse per farmi sbarcare dagli scafisti aguzzini libici. Prima ero passato per il Niger, l’Algeria e poi ero stato messo in prigione in Libia. Centri di accoglienza? Sono prigioni. Dalla barca mi sono lanciato giù e sono arrivato in Italia con una profonda ferita al fianco. Sono stato curato al Girasole, dove mi trovo bene. Leggo molto. Scienze, cose così. Ho 30 anni, ma ho tanta voglia di imparare. L’italiano l’ho imparato leggendo tanto, forse troppo. Tra di noi parliamo in francese, ma me la cavo in cinque lingue, anche se la mia, il Fulà, non la parla nessuno. Sarebbe bello spiegargli che “fulà l’uga” in lombardo vuol dire “pigiare l’uva”, ma non è il caso. Anche perché chiacchierando si è perso tempo e le Sorelle Cescon ci fanno capire che non è il caso di insistere con Barry. Capita l’antifona. Se la ridono pure Jan Abdurrabaman ragazzo del Gambia con una bottiglietta d’acqua al collo, e Mustafà, che invece arriva dal Niger. Testa bassa e lavorare, perché ci sono ancora un paio d’ore per lasciare solo foglie nella spianata della Piccola Russia e andare “a casa”. Già, la chiamano così la cooperativa e quando gli chiedi se vogliono “tornare a casa”, capiscono Busco e non Africa. Iero Kande, senegalese, ha 19 anni e alla domanda strizza gli occhi: «Io sono qui per restare, in Senegal mi è rimasto solo il mio papà» –

Toni Frigo

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