Le intoccabili “tombe morte” di San Lazzaro

TREVISO. «Lei è della tribuna, vero? Scriva, scriva che è uno spettacolo a dir poco triste, desolante. Scriva che accanto alla tomba dei nostri cari, ben tenuta e fiorita, ce ne sono a decine di trascurate, a volte illeggibili, nude o con vecchi fiori di plastica, la muffa e il lichene che crescono selvaggiamente. Queste sono tombe di gente senza più parenti, perché tenerle lì in quello stato?».
Eterno sepolcro. Semplice, cara signora che, certo, non ha torto: esiste una legislazione sui cimiteri che risale all’epoca fascista e che impone che le sepolture “perenni” (a proposito, ce n’è una di un “presidente degli industriali fascisti” che di fiori non ne ha mai visto uno) siano considerate monumenti quasi intoccabili, anche se palesemente abbandonate. Intanto, per trovare un posto in camposanto, bisogna moltiplicare i lotti tutt’attorno. Nel nostro misericordioso tour a San Lazzaro, ci è capitato più volte, mentre la gente andava a porre fiori ai propri defunti, di sentire questo discorso. Vero che il cimitero di San Lazzaro è quello “monumentale” della città, ma l’epiteto non è una giustificazione e il problema è comune anche ai camposanti di quartiere: troppe tombe abbandonate e intoccabili.
Monumenti vuoti. E c’è poco da ricordare che il censo di chi ha “comprato casa” al cimitero non basta, in assenza di parenti reperibili, a giustificarne l’eternità: la legge è quella e andrebbe cambiata. «Facciamo di tutto per mantenere dignitoso il cimitero», spiega il personale, «ma le tombe perenni sono intoccabili». Andiamo a vederle?

Lapidi annerite. Appena entrati dall’ingresso principale, a terra, con la loro brutta lapide in cemento, tra pittori ed ex sindaci meritevoli dei gladioli del Comune, ce ne sono tante, fiorite di grigi licheni e con i caratteri ormai illeggibili. Basta guardar bene e cercare la data dell’ultima sepoltura per capire che si tratta di famiglie “disseccate” o trasferitesi lontano da qui. Camminando sulla stessa linea, verso Est, ad esempio, troviamo che l’ultimo dei conti Bragadin residenti in città è deceduto nel 1946, l’ultimo Besta ha reso l’anima a Dio nel 1969, mentre il povero Gino Bello ha addirittura la lapide divelta, completamente senza fiori. E la scritta (non vecchia) “i tuoi cari” sembra - e certamente non è - ironica.

Cappella selvaggia. Le “edicole funerarie”, che noi chiamiamo più celebrativamente “cappelle di famiglia”, non mancano a questo penoso - ma anche pietoso - appello. Se vi capitasse di transitare accanto a quella, molto avanti a sinistra rispetto all’entrata, dei Ferretto, storici fotografi della città, testimoni della vita trevigiana dei primi del Novecento, potreste scoprire che il portoncino è aperto, i gradini sbriciolati, la cupola verde di muffa e l’unica presenza è la gotica statua della morte - con teschio - che rapisce una fanciulla con una mano resa monca da qualche disgraziato.
Escamotage. Qualcuno ha pensato bene di rivestire la sepoltura dei propri cari con piantine e arbusti, risparmiandosi così il pietoso gesto del tributo floreale. L’effetto è: anonimato totale, rovi e rami che s’intrecciano e morte civile del povero defunto, il cui nome viene cancellato per sempre. Non a tutti, insomma, va bene come a Paolo e Isidoro Pantaleoni, che hanno un pino marittimo a sovrastare la tomba “a terra”. Più spesso capita, invece, di vedere incredibili fusioni in bronzo, per lumini ma anche per “maschere funerarie”, che fanno pendant con pietre tombali e fotoceramica divorate dall’incuria e di cui sfuggono per sempre i nomi degli... occupanti.
Anita. Poi c’è il gratacielo rabaltà a metà del cimitero, sulla destra per chi entra, nel quale il grande pittore Gino Rossi ha avuto solo da qualche anno la fotoceramica. Sopra di lui la lapide di certa Anita Garibaldi fa sussurare da anni per il nome storico. E la mancanza di un solo fiore. E attorno, sempre nel “gratacielo”, è un... fiorire di plastica e stoffa ingrigite, a decorazione di sepolture delle varie “virtuosa benefica e pia”, viceprefetti, ragionieri, “cittadino integerrino e padre esemplare”, “fiore di bontà e virtù” senza un segno di pietà umana. C’è perfino un “perito miseramente nel mare di Rimini Bellaria” che lascia immaginare un romanzo o una storia, dimenticata dai parenti, qualora ce ne fossero ancora. Ma ne ha di certo, testimoniati da un paio di piante di crisantemi, il cinquantenne che si è fatto mettere, al posto della lapide, un grande pallone da calcio in pietra... O tempora, o mores.
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