Il Flit, la maglia di lana i capelli a banana: un ballata di nostalgia

Da cinquant'anni l'Italia è divisa in tre: quelli che sono cresciuti a pane e Guccini, quelli che non lo amano, anzi proprio lo detestano, e quelli che per principio preso non ascolteranno mai le sue canzoni. Ma il miracolo è successo. Sono i numeri a dirlo. Il Dizionario delle cose perdute (Mondadori, 10 euro, disponibile in e-book) è uno dei libri più venduti. Quella copertina che guardi e ti vengono subito in mente le Nazionali Esportazione che fumava il nonno a quanto pare ha messo d'accordo gli uni e gli altri. Sarà perché abbiamo bisogno di memoria da ritrovare nel vuoto quotidiano di questo benedetto assurdo belpaese. Chissà, forse per capire dove vogliamo andare abbiamo bisogno di conoscere da dove veniamo. E noi siamo quelli lì. Quelli che il Maestro modenese racconta in una sorta di romanzo dai toni poetici, eleganti, puntuali, divertenti in cui ci ricorda cosa c'era quando delle cose che abbiamo adesso non c'era niente. C'era la prima foto scattata in studio con l'acconciatura a banana e c'erano le chewing-gum portate dagli alleati. C'erano i cantastorie in piazza, la maglia di lana che pungeva, i costumi fatti a ferri con l'elastico che ti tradiva, le braghe corte, il carbone quello vero, i taxi neri e verdi, i "balla, signorina?" che hanno dato vita a tante storie d'amore. C'erano cose che chi oggi è sotto i quaranta non si può ricordare: la siringa di vetro che si faceva bollire, il Flit, la carta moschicida, il bigliettaio sul filobus, il dentifricio che lo arrotolavi e poi lo schiacciavi col cucchiaio per farlo uscire tutto, la cucina economica, lo scaldino, il primo telefono di bachelite che per chiamare non serviva il prefisso e se volevi risparmiare sceglievi la linea duplex. Non c'era la Playstation, una volta. Una volta c'erano la fionda, la cerbottana, i tappi delle bottiglie, le palline e il Meccano. C'era la naia, una volta. Tutte cose che erano così e basta, perché non si poteva fare altrimenti. Cose che, più che andarsene, ci sono volate via e che oggi Guccini ci fa riguardare con affetto o scoprire con meraviglia. Un libro color nostalgia scritto da un settantenne che non ha mai preso la patente, non usa il cellulare e non ha mai cambiato la foto del manifesto dei suoi concerti. Un antidivo per eccellenza capace però di scavare nella memoria per farci capire come siamo diventati. A Washington gli americani delle piccole cose andate ne hanno fatto un museo di storia nazionale. Noi abbiamo il Dizionario delle cose perdute, una canzone quasi d'amore del vivere quotidiano di ieri. Una ballata delle nostre radici.
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