Fuga dall’orrore e dalla morte di Gaza: «La nostra nuova vita a Treviso»
Mariam Habboub, 42 anni, è sopravvissuta ai bombardamenti di Gaza insieme ai figli Alaa e Mohammed, ma ha perso una figlia e numerosi familiari. Dopo mesi di fame, macerie e paura, sono riusciti a raggiungere Treviso. Ecco la loro storia

«La casa ha tremato, le finestre si sono frantumate sopra le nostre teste e la polvere ha coperto tutto. Non c’era tempo per pensare: abbiamo preso le nostre borse e camminato tra le macerie per sfuggire alle schegge, al fumo e al rumore dei razzi che non si fermavano. Siamo passati accanto a cadaveri che nessuno aveva potuto seppellire, bambini che piangevano, senza le loro famiglie, alcuni perché ne erano stati separati, altri perché le famiglie erano state uccise».
Una tragedia senza senso, senza fine, quella vissuta di Mariam e dalla sua famiglia. «Mentre aspettavamo la fine dei bombardamenti, ho ricevuto la notizia del martirio di mia figlia: era stata presa di mira per strada. Non portava armi, non stava combattendo. Stava solo cercando di sopravvivere. Anche mio fratello, che era uscito a cercare cibo per i suoi figli piccoli, se n’era andato. Non è tornato nemmeno lui».
La catastrofe umanitaria
Mentre su Israele aumentano le pressioni internazionali e anche interne per una tregua, a Gaza si continua a morire, sotto le bombe, per assenza di cure, per fame.
Ad oggi le vittime civili si contano a decine di migliaia. Secondo l’Onu sono state rase al suolo il 70% delle infrastrutture e il 90% delle abitazioni. Mariam Habboub, palestinese di 42 anni, e i suoi figli Mohammed, 14 anni, e Alaa, 23, fino a due mesi fa vivevano a Gaza. Sono riusciti a fuggirne grazie all’impegno dell’associazione I Care Veneto e di Croce rossa italiana: il 23 maggio hanno raggiunto Treviso, dove già vivevano il marito di Mariam e un altro figlio.
Adesso abitano a Silea. È lì che li incontriamo, al Circolo pensionati al passo dove, due volte la settimana, prendono lezioni di italiano da una volontaria di I Care, Manuela Persello.
La vita sconvolta e la fuga
Mariam porta una tuta nera, ha il capo coperto dal velo, gli occhi attenti dietro gli occhiali. Il figlio piccolo, Mohammed, le somiglia; ha una cicatrice sulla fronte.
Alaa, il grande, si è appena iscritto in palestra, ammette, scherzando sulla propria magrezza. Sorride, Mariam, ma a volte si incupisce. A Gaza ha perso molti familiari, tra cui una figlia. Un’altra, Shaymaa, 26 anni, che ha un bambino ed è incinta, è là e rischia ogni giorno la vita. Prima della guerra gli Habboub vivono a Tal al-Zaatar, nel nord di Gaza.
Lei lavora come parrucchiera e cuoca. Ha due figlie già sposate e tre maschi. Suo marito Jehad, militare di Fatah (fazione rivale di Hamas) è stato espulso da Gaza e vive a Treviso, coi documenti in regola e un lavoro da muratore e uno dei figli, Hasan, 21 anni, parte per raggiungerlo, poco prima del 7 ottobre 2023. Poi la strage di civili israeliani compiuta da Hamas innesca la reazione militare di Israele su Gaza. Nel gennaio 2024 tocca alla città di Mariam, alla sua casa.
Le bombe, la casa che trema, la morte, la fuga. Il dramma di quei giorni Mariam l’ha affidato al suo diario. Sono scappati verso sud, percorrendo tutta la Striscia a piedi. Morte, distruzione, angoscia. Ci si accampa in ospedali, scuole, tende. E accade la cosa più dolorosa: «Un giorno, mentre aspettavamo la fine dei bombardamenti, ho ricevuto la notizia del martirio di mia figlia. Stava solo cercando di sopravvivere. Anche mio fratello, che era uscito a cercare cibo per i suoi figli piccoli, se n’era andato. Non è tornato nemmeno lui».
La speranza e l’odissea
Intanto, a Treviso, il marito Jehad ottiene il nulla osta per il ricongiungimento familiare per Mariam e i ragazzi. Per far valere il documento i tre dovrebbero recarsi al Consolato italiano a Gerusalemme: vicina ma irraggiungibile per i gazawi.
Pagando l’equivalente di cinquemila euro a testa, riescono a farsi portare fino alla nostra ambasciata al Cairo, dove però li attende una tragica delusione: malgrado il nulla osta rilasciato dalle autorità italiane, l’ambasciata non li fa neanche entrare, in quanto non egiziani. Approfittando di un’apparente tregua tornano a Gaza con la speranza di raggiungere Gerusalemme. Ma l’offensiva israeliana riprende, peggio di prima. Mohammed resta ferito al volto. E poi c’è la fame.
«Abbiamo trascorso la maggior parte della guerra mangiando riso, pasta e lenticchie. Non c’erano verdure, carne o uova, nemmeno biscotti per i bambini. Dividevamo il cibo in porzioni e le contavamo con un cucchiaio, e davamo da mangiare prima ai più piccoli. Un chilo di farina, prima che lasciassi la Striscia, veniva venduto a 100 shekel, circa 25 euro. Un chilo di zucchero 50 euro».
La salvezza
Il nulla osta per raggiungere l’Italia scade. A Treviso i familiari, con l’aiuto di I Care, riescono a farlo rinnovare: «La prefettura fu molto collaborativa», dice Vincenzo Grasso, il volontario che ha seguito dall’inizio la loro vicenda, «Lo rilasciò in due mesi». Ma è ormai impossibile spostarsi da Gaza. I Care segnala Mariam e i figli alla Croce rossa affinché almeno li tenga tracciati (il tracing dei familiari in aree di guerra è una delle loro attività).
Poi il colpo di fortuna: la Croce rossa attiva un’evacuazione, e loro vengono inseriti nel convoglio. Li portano all’ambasciata d’Italia ad Ammam, in Giordania. Poco dopo sono a Treviso. Ora Mariam, Alaa e Mohammed vivono in un appartamento a Cendon, grazie al Comune di Silea e alla Comunità Sant’Egidio. È solo uno dei nodi della rete di solidarietà che si è attivata: istituzioni, associazioni e cittadini che li hanno accolti e continuano a supportarli.
La nuova vita
Alaa racconta che un gruppo di attiviste lo hanno portato a una festa, dove ha aiutato a cucinare: ha fatto anche la pizza. Ha mal di denti e, mentre parliamo, una di queste donne lo viene a prendere per accompagnarlo dal dentista, che lo curerà gratuitamente.
Mohammed, che a Gaza amava giocare a pallone, è già iscritto al S. Elena calcio. È vivace e sorridente. «Le prime volte che lo incontravo non rideva mai», dice Manuela Persello. Ora, anche con l’aiuto del figlio Hasan che lavora in un ristorante, bisogna costruire passo dopo passo l’autonomia familiare. A settembre i ragazzi si iscriveranno al Cpia, per ottenere il diploma di terza media. «Il loro futuro», dice Mariam, «è in Italia. Non possono tornare a Gaza».
Lei è divisa tra il sollievo per i figli al sicuro qui e l’angoscia per Shaymaa, laggiù. Ogni mattina, la prima cosa che fa è cercare di contattarla per sapere se sta bene. Vorrebbe che anche lei potesse venire in Italia, ma non ha nemmeno il passaporto. Mariam ci prepara un tè. Mohammed è impaziente: si è già fatto degli amici nel quartiere, e sparisce in sella alla sua bici rossa.—
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