«Istituire un albo anti caporalato», l’intervista al presidente Confagricoltura Treviso e Veneto

Giangiacomo Gallarati Scotti Bonaldi, Confagricoltura Treviso e Veneto, traccia un bilancio«La questione è ampia: non riguarda solo gli addetti, ma anche i titolari delle imprese agricole»

Gallarati Scotti Bonaldi, presidente Confagricoltura Treviso e Veneto
Gallarati Scotti Bonaldi, presidente Confagricoltura Treviso e Veneto

Sindacati nei campi e una categoria di imprenditori, quelli agricoli, che si dichiara sotto scacco della burocrazia. Gangiacomo Gallarati Scotti Bonaldi, presidente di Confagricoltura Treviso e Veneto, riporta il tema delle brigate del lavoro dal livello politico a quello pratico.

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L’iniziativa sindacale ha creato diversi dibattiti. Cosa ne pensa?
«Si è trattato di un dibattito di natura squisitamente politica. Si tratta di un tema delicato che è finito alla ribalta. Il problema è che con questo tipo di comunicazione sembra che in azienda sia tutto un problema».
Non è corretto?
«Abbiamo sempre detto che anche nella nostra provincia, come nelle altre, ci possono essere delle storture, però la gran parte dei lavoratori sono in regola. Credo quindi che sia inutile andare nei campi facendo proclami, portando acqua ai nostri dipendenti o a chi lavora nelle vigne, perché ce l’hanno già, non è quello il problema. Il problema da affrontare è un tema complesso di non facilissima soluzione».
Qual è?
«L’irregolarità va sempre contrastata e sanzionata, questa è la base. Il problema è che ci sono tanti oneri burocratici che oggi gli imprenditori devono rispettare e che spesso rendono difficile il lavoro».
Si riferisce alla soluzione proposta dalla Rete del lavoro agricolo di qualità?
«Il tentativo era quello di trovare nuove soluzioni, come la check list che gli imprenditori devono compilare per verificare se le aziende che somministrano personale sono in regola. Però abbiamo visto che la soluzione ha caricato ulteriormente di oneri le imprese. Bisogna identificare i problemi, cercare di risolverli. Non dovrebbero essere gli imprenditori agricoli a trovare le irregolarità nelle cooperative, ci dovrebbero essere istituzioni preposte a far questo».
Nessuna azienda ha compilato la check list, in effetti.
«Perché di fatto, al di là della base volontaria, aggiunge oneri burocratici alle aziende che già ne hanno parecchi, il fatto di dover segnalare le cooperative, chiedere a queste stesse società che danno manodopera di dare tutta una serie di informazioni aggiuntive non richieste dalla norma è un problema per tutti. La parte documentale di verifica, di chi viene in azienda, è veramente complessa. Il che non significa che non dobbiamo cercare di risolvere quelle situazioni. Anzi».
È solo questione di troppa burocrazia?
«Le aziende sono già prese dai loro impegni e a meno che non sia normativamente vincolante, non sentono queste esigenze, perché non c’è nessun vantaggio a fare questo tipo di operazione».
Quale può essere la soluzione?
«Potrebbe essere quella di istituire un albo a cui tutte le società di somministrazione di personale sono obbligate a registrarsi in modo tale che le istituzioni pubbliche possano fare tutti i loro controlli in piena autonomia. Così l’azienda agricola non ha ulteriori adempimenti di cui occuparsi, perché sa di rivolgersi a una società certificata o quantomeno registrata e, quindi, in regola. Il compito di verifica dovrebbe essere una funzione pubblica. Quindi la soluzione è demandare agli organi istituzionali questo controllo, in modo tale che non si vada a gravare sulle aziende. Con questo non voglio dire che tutto il lavoro che è stato fatto fino adesso sia inutile. Poi c’è un altro tema».
Quale?
«Se vogliamo veramente fare integrazione, dobbiamo disporre di reali progetti di integrazione. Le persone che vengono a lavorare devono essere preparate non solo da un punto di vista professionale, ma anche da quello linguistico. Sarebbe doveroso aiutarle con dei corsi per imparare l’italiano. Questo è il primo passo per l’integrazione, ormai i lavoratori non vengono più per un periodo limitato, ma arrivano e poi rimangono sul nostro territorio, continuano a lavorare».
Sono cambiati i lavoratori?
«Le richieste ci sono e ce ne saranno sempre di più anche nel settore agricolo: la manodopera italiana si trova sempre meno, mentre è aumentata la disponibilità di persone che vengono da fuori comunità e quindi si rende fondamentale un percorso di integrazione articolato, altrimenti rischiamo di incappare in problemi successivi. Non possiamo pensare di abbandonare queste persone, ma accoglierle e metterle nelle condizioni di lavorare al meglio».—l.r.

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