Fuggì in Ungheria con il figlio, mamma condannata a un anno e mezzo
Il bambino all’epoca aveva solo 7 anni. Ora vive in Ungheria con la madre e il padre è costretto a farsi 1200 chilometri una volta al mese per vederlo soltanto per 24 ore. La difesa: «Ricorreremo appello»

Era l’ottobre del 2017 quando una donna ungherese, moglie di un imprenditore del settore edile di Mogliano, di punto in bianco decise di tornarsene nel paese d’origine, senza preannunciare nulla a nessuno. Dopo che il marito, oggi poco più che quarantenne, s’era alzato all’alba per andare a lavorare, lei caricò l’automobile di famiglia con il bambino, che all’epoca aveva solo 7 anni, e i suoi effetti personali, e partì in direzione di una cittadina che si affaccia sul lago di Balaton, nel suo Paese d’origine. Da allora il bambino non è più ritornato a Mogliano dove aveva vissuto i primi sette anni della sua vita.
«Non scorderò mai quel giorno. Quando tornai a casa per pranzo – racconta l’uomo – non trovai nessuno. Mia moglie, mio figlio e la macchina di famiglia erano spariti. Immaginarsi l’angoscia: sentivo il cuore in gola, anche se immaginavo cos’era successo, grazie alle testimonianze dei vicini di casa. Soltanto dopo qualche giorno, lei si degnò di mandarmi una mail con un messaggio di poche righe: “Ti informo che siamo arrivati in Ungheria”». Da allora, tra la donna, oggi di 33 anni, e il marito le strade si sono divise ulteriormente, con cause civili, separazione prossima al divorzio e denuncia penale per sottrazione di minore.
Nel primo pomeriggio di oggi, il giudice Leonardo Bianco del tribunale di Treviso ha messo un mattone sulla vicenda e ha deciso di condannare la madre a un anno e sei mesi (così come richiesto dalla pubblica accusa rappresentata in aula dal pubblico ministero Eloisa Galluppi) e alla risarcimento da stabilire davanti al tribunale civile, riconoscendo però all’uomo una provvisionale immediatamente esecutiva di 20mila euro». Il giudice ha sospeso inoltre la responsabilità genitoriale della donna. Naturalmente, la sentenza, finché non sarà definitiva, non avrà alcuna esecutività operativa. A maggior ragione dopo che il legale della donna, l’avvocato Matteo Moretto di Pordenone, ha preannunciato, al termine dell’udienza, un ricorso in Corte d’Appello. «Rispettiamo la sentenza ma non ne condividiamo l’esito: posso già tranquillamente preannunciare ricorso in Appello».
Di positivo c’è, che a quasi cinque anni di distanza dal fatto, i due genitori hanno ricominciato a parlarsi. Lo hanno fatto ieri a margine dell’udienza. Naturalmente, le versioni dei fatti sono rimaste opposte. La donna ha parlato di un clima familiare insopportabile: «Forse dovevo comportarmi diversamente», ha detto in aula. «Ma ero sola e impaurita e volevo solo crescere bene mio figlio. Ho sentito tante bugie in quest’aula rivolte a me. Ma i rapporti tra noi erano ai minimi termini e non potevamo andare avanti anche perché avevo paura di lui». Da parte sua, l’uomo, costituitosi parte civile, ha sempre rivendicato di aver rispettato le regole. «La mia dignità di uomo e di padre è stata calpestata ed è per questo che mi sono rivolto alla giustizia».
Il legale di parte civile, l’avvocato Fabio Crea, ha parlato di un bambino sradicato dall’ambiente in cui aveva vissuto per sette anni con un padre costretto a farsi ore di viaggio in auto e a spendere 500 euro a volta per andare a riabbracciare il figlio per sole 24 ore al mese. Il bambino, affidato ai servizi sociali, rimane con la madre in Ungheria, fino a quando su questo caso ci sarà una sentenza definitiva. Il primo round è stato assegnato ieri al padre.
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