Frode fiscale, in manette un “ministro” venetista di Conegliano

Erminio Berton coinvolto in un’inchiesta della Guardia di Finanza di Vicenza Avrebbe partecipato a un raggiro sull’Iva nel ramo del commercio alimentare

TREVISO. Il “ministro del commercio e dell’industria del governo del popolo veneto”, Erminio Berton, 70 anni, originario di Cittadella, ex imprenditore nel ramo degli pneumatici ed ex editore di un’emittente televisiva coneglianese, è stato arrestato ieri dai militari della guardia di Finanza di Vicenza, al termine di un’operazione che ha portato, dietro alle sbarre o ai domiciliari, 29 persone per una maxi frode fiscale da quasi un miliardo di euro, attraverso un giro di fatture false.

Nel corso del blitz, scattato all’alba di ieri, che ha impegnato 120 militari delle Fiamme Gialle, sono state notificate 18 misure di custodia cautelare in carcere e 11 ai domiciliari a persone accusate di far parte di un’organizzazione dedita, almeno dal 2009, alla frode fiscale e alla commissione di reati fallimentari. L’inchiesta è nata da indagini eseguite nei confronti di 180 società (di cui 145 italiane) ed ha consentito di accertare un giro di fatture per operazioni inesistenti pari a 930 milioni di euro. Un raggiro finalizzato all’evasione dell’Iva di oltre 130 milioni di euro attraverso l’appoggio di aziende «cartiere». Un giro che aveva al centro il commercio di prodotti ad alta tecnologia, come tablet e televisioni, ma anche prodotti alimentari quali farina, zucchero, latte in polvere e prodotti per le stampanti.

Berton, formalmente iscritto all’Aire, era considerato dai finanzieri uno stretto collaboratori di una delle menti del maxi raggiro fiscale, impegnato nel filone del commercio di prodotti alimentari.

La merce, spiega un comunicato della Finanza, che già si trovava in Italia, veniva ceduta molto spesso solo fittiziamente in regime di “reverse charge” ossia in sospensione d’imposta a un’azienda comunitaria, la quale rivendeva (sempre in reverse charge e sempre solo mediante trasferimenti fittizi) alla società «cartiera» italiana. Quest’ultima cedeva ulteriormente la merce (questa volta con Iva e «sottocosto») a una o più società “filtro”, le quali la rivendevano al beneficiario finale della frode. Da questo giro, in pochi mesi, si creava un ingente debito Iva (quella riscossa nel momento della cessione alle società filtro) che però non versava. La sede della società veniva, quindi, dapprima trasferita a Roma o a Milano e alla fine piazzata all’estero dove veniva «rottamata» lasciando dietro di sé un grande debito tributario non più esigibile e l’impossibilità di dichiararne il fallimento.

 

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