Coronavirus Treviso, gli angeli che curano a casa: «Ci ripaga la gratitudine»

Sara Doroldi, 26 anni, è una delle dottoresse delle unità speciali Usca. Sono gli unici ad entrare nel domicilio dei pazienti che non vengono ricoverati

TREVISO. Eccoli, i medici delle unità speciali chiamateUsca: quelle istituite lo scorso marzo per fare fronte alle migliaia di malati di Covid che si curano a casa. Un mare di cui è difficile definitre i contorni se si consiera che oggi nella Marca i positivi sono quasi 18mila: un numero altissimo raggiunto anche grazie all’ingente numero di tamponi, mai eguagliato prima, neppure durante la prima ondata. A fronte degli oltre 500 pazienti ospdalizzati e seguti in corsia, ce ne sono molti di più che trascorrono tutte le fasi della malattia tra la camera da letto e il divano di casa. Qualcuno con sintolmi lievi, altri con la febbre a 40 e il saturimetro sempre a portata di mano. È lì che fanno capolino gli angeli dlle Usca. Giovani, età media tra i 25 e i 26 anni, pieni di passione per il loro lavoro, sono gli unici a visitare i pazienti Covid 19 a domicilio, affiancando il medico di famiglia che però fa la diagnosi e stabilisce la cura solo a distanza. Una luce che si accende, spesso l’unica, in fondo al tunnel della malattia vissuta a casa in solitudine soppesando ogni sintomo e ascoltando di ora in ora il proprio respiro.



«Per me come per i miei colleghi è il primo approccio alla vita lavorativa. Ci siamo ritrovati a porre le basi di un’attività che prima non esisteva e a mettere ognuno in gioco la propria esperienza per creare delle procedure, dei protocolli, delle regole comuni che abbiamo testato e perfezionato nel tempo e che ci permettessero di seguire al meglio questi pazienti. Sicuramente l’impegno è ripagato con la gratitudine con cui i pazienti ci accolgono e vedendo come a volte anche solo la chiamata quotidiana o la visita in sé bastino a far sentire meglio queste persone». Sara Doroldi, 26 anni compiuti a giugno, lavora nelle Usca del distretto Treviso Nord. Ha cominciato a maggio dopo aver svolto un periodo di formazione. Da allora trascorre le sue giornate a contatto con i pazienti: contatto telefonico, ma anche fisico, a casa dei malati.

«Per quanto riguarda le visite a domicilio ai pazienti Covid la giornata inizia alle 8 e finisce alle 20. Al mattino, raccogliamo tutte le nuove richieste di valutazione che ci arrivano dai medici di medicina generale e dai colleghi di continuità assistenziale e cominciamo ad organizzare le visite dopo aver sentito al telefono i pazienti – racconta la dottoressa Doroldi – nel frattempo altri colleghi si occupano del monitoraggio telefonico di chi è già seguito da noi. Se alla valutazione telefonica dovesse emergere un peggioramento, ci attiviamo in modo da ritornare a visitarli». Dalle 8 alle 20, sette giorni su sette, la squadra (due medici oppure un medico con un infermiere) si prepara. Giunti al domicilio del paziente da visitare, ci si prepara con tutti i dispositivi che abbiamo imparato a conoscere: camice, cuffia, guanti, mascherina, visiera. «Uno si veste – aggiunge Sara Doroldi – e un altro collega rimane disponibile “pulito” per fornire supporto. Oltre alla visita, la nostra valutazione si estende anche alle condizioni in cui il malato deve vivere il suo isolamento e a consigli su come affrontarlo al meglio. Terminata la visita ci svestiamo con attenzione e condividiamo le nostre valutazioni con il medico di gamiglia che conosce meglio i suoi pazienti per valutare insieme un percorso di cura». I giovani medici delle Usca – «116 assunzioni fino ad ora in ambito Usl 2» secondo i dati forniti dal direttore generale Francesco Benazzi – lavorano nei quattro distretti di Treviso Nord e Sud, Asolo e Pieve di Soligo, dividendosi tra numerosi compiti che compendono anche l’esecuzione dei tamponi nei Covid point e al domicilio ai pazienti che non possono essere spostati e ultimamente anche nella gestione degli screening nelle case di riposo o nei centri diurni.

La fatica non si discute, come l’umana paura di ammalarsi. «All’inizio la paura c’era sicuramente – aggiunge – soprattutto dopo le prime visite a pazienti positivi accertati e non più solo sospetti. Poi grazie agli screening a cui siamo sottoposti e all’esperienza, la paura è passata nonostante l’alto rischio perché nelle case dei pazienti tutto è potenzialmente infetto. Io mi sono ammalata di Covid 19 più di un mese fa, ma ora sono guarita. È stato per un contatto in ambito familiare: mi ha aiutato a capire meglio le eseperienze dei pazienti». Se nel primo periodo della seconda ondata i malatii avevano un'età superiore ai 70 anni. Da parecchie settimane non è più così. «Sempre più spesso ci troviamo a visitare anche interi nuclei familiari – spiega – un’immagine che mi ha davvero toccata è stata durante una visita: mamma e papà giovani positivi con tre bambini negativi, di cui uno di tre anni. Cercavano per quanto possibile di rimanere isolati tra di loro, ma mentre eravamo lì il più piccolo è sceso dal piano superiore e si è gettato addosso alle gambe della mamma, chiedendole sconsolato se ancora lei gli volesse bene e perchè non lo prendesse più in braccio da qualche giorno. I bambini, che magari non hanno molti problemi dal punto di vista fisico quando colpiti dal virus, vengono comunque segnati da tutta questa situazione. Anche per questo è importante che ognuno di noi si impegni bei comportamenti per uscire al più prsto da questa emergenza». —




 

Riproduzione riservata © Tribuna di Treviso