Con gli occhi di Van Gogh davanti all’acqua increspata

di MARCO GOLDIN
Tu senti qui come la vita sia qualcosa che ritorna, mai uguale ma in forme che si approssimano al destino. Il nostro, quello di chi è venuto prima e più non è. Certamente quello di coloro che verranno dopo di noi, così come noi siamo venuti dopo altri più lontani da noi. Essere qui, adesso, in una giornata chiara, luminosa e stupenda di ottobre, mentre si ricorda il pittore che prese una carrozza al principio di giugno del 1888 e da Arles si spostò per qualche giorno a Les-Saintes-Maries-de-la-Mer. Per dipingere il mare, il mare color delle acciughe come scrisse in una lettera a Theo. Passato in un galoppo di cavalli bianchi nel mezzo di questa distesa d'acqua e canne, con la polvere bianca della strada che saliva in mulinelli di vento.
E noi siamo qui oggi, presi in faccia dal Mistral, che ha spazzato via la pioggia di ieri sera e ci ha donato questo azzurro che da ogni parte dilaga, e anche volendo tu non riusciresti a fermarlo. "Caro fratello, ho dipinto tutto il giorno in pieno Mistral, e sono tornato a casa a sera completamente spossato. Ho piantato a terra il cavalletto ancorandolo a dei picchetti di ferro, perché non volasse via. Dovresti vedere cos'è la natura qui", scriveva Vincent a Theo. E noi siamo qui oggi, sui suoi passi, lungo i suoi sentieri, fino alla sabbia che si apre davanti al mare. Piccole spiagge che ha dipinto in una manciata di quadri, oppure barche colorate sull'azzurro di un'acqua appena increspata dallo sbuffo bianco di un'onda. Non si sente più la gente che si muove vicino e si torna, guardando il mare, fissandolo, alla solitudine d'allora, a quella professione d'amore sconsiderato verso la pittura. Dipingere come vivere, il centro unico della verità. E morirne.

Poi, come fece Van Gogh ho ripreso la strada verso Arles. E ho puntato dritto verso Les Alycamps, dove lavoro' assieme a Gauguin proprio in questa stagione, nell'autunno del 1888. Il grande viale d'alberi all'ingresso e tutto quello spirito dei morti che sale dalle tombe e dai sarcofagi. La pietra bianca della grande chiesa, la terra battuta come allora e tu sai che su questa strada hanno messo i loro passi questi due pittori straordinari, feriti dalla vita. Qui le loro anime si sommano oggi a quelle di coloro che attorno si lasciano ricordare. E sono le prime foglie che cadono, come dei fiocchi di neve, come scrisse Vincent a Theo. Non ci si può sottrarre, e non si vorrebbe più partire da questa meraviglia che viene nel pomeriggio inoltrato, appena malinconica. E poi ho preso la strada che dal centro della città, lungo un bellissimo canale fatto d'acqua e alberi, porta nella zona di Langlois. Una camminata di un'ora, mentre la luce si allungava sempre di più sulla natura. Fino a che, dietro una curva nascosta da alti pioppi, ci è apparso il ponte, che Van Gogh aveva dipinto tra le prime sue cose nella primavera del 1888, giunto da due mesi da Parigi, dopo avere visto il fuoco accendersi tra i salici potati al tramonto. Il ponte di Langlois, l'ho voluto toccare, accarezzare, perché quel ponte, identico nel suo legno tramandato per generazioni, l'aveva toccato Vincent mentre lo dipingeva. E sono stato felice di essere con lui, qui. Poi la strada mi ha portato a sera, ormai tutto buio attorno, di nuovo ad Arles, nel centro della città. E mentre adesso scrivo, seduto al caffè di place de Forum che lui ha reso celebre in un quadro dove tutte vibrano e respirano le stelle nel cielo, penso a questa giornata che finisce. E non smetto di stupirmi per la commozione e la meraviglia. (8. Continua)
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