Bancarotta fraudolenta ancora nei guai Zara

REFRONTOLO. Si allarga ancora l’inchiesta sul fallimento della Marmitte Zara, un crac da milioni di euro che nello scorso aprile ha visto già la condanna a tre anni e mezzo di reclusione per Bruno Campeol, amministratore delegato di alcune aziende del gruppo.
Dopo nuove indagini infatti gli investigatori del nucleo tributario della Guardia di Finanza hanno scoperto una nuova , grandissima distrazione di beni mobili e immobili appartenenti ad altre due aziende del gruppo fino ad oggi estranee ai fatti. Si tratta della società immobiliare Zeropiù e della Promar, fallite nel 2008. Nel mirino, con l’accusa di bancarotta fraudolenta, ancora una volta Renato Zara.
Il 54enne di San Pietro di Feletto, patron della società specializzata nella realizzazione di marmitte di Refrontolo, è accusato di aver «continuato a porre in essere un sistematico e conclamato svuotamento delle due aziende attraverso l’infedele ed inattendibile tenuta delle contabilità». Una condotta, seguono i finanzieri, «che ha impedito agli organi della procedura fallimentare la puntuale ricostruzione del patrimonio e degli affari», in danno - ovviamente - della massa dei creditori sociali esposti per oltre 2,2 milioni di euro».
La Promar si occupava di lavorazioni accessorie alla produzione delle marmitte. La Zeropiù invece era l’azienda attraverso la quale la famiglia gestiva gli immobili dove avevano sede le varie aziende del gruppo, quindi sia gli immobili capannoni, sia quelli acquisiti dalle società per interessi patrimoniali o logistici.
Cosa sostengono i finanzieri? Che Zara, per ripianare i debiti contratti nel corso del tempo e tappare buchi di bilancio, abbia venduto gli immobili della Zeropiù e traslato la proprietà degli attrezzi meccanici della Promar prima che venissero inglobate dalla procedura di risarcimento dei creditori. «È stato accertato», scrivono gli investigatori, «che l’indagato, nell’imminenza delle rispettive dichiarazioni di fallimento, aveva effettuato pagamenti preferenziali per oltre 800 mila euro, eseguiti a totale ripianamento di debiti presenti su conti correnti bancari societari, nonché considerevoli depauperamenti del patrimonio aziendale, per oltre 5,6 milioni di euro».
Quando sono arrivati i curatori fallimentari, quindi, non hanno trovato più nulla. Renato Zara ora dovrà rispondere del reato di bancarotta fraudolenta documentale e patrimoniale, accusa che è il cardine della seconda fase dell’inchiesta avviata sul fallimento della Marmitte Zara (poi diventata Ape), un crac pesato soprattutto sulle spalle dei lavoratori delle aziende coinvolte.
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