Addio a Nico Piazzetta il signore dei caminetti

È morto il fondatore dell’azienda, lungo corteo di operai alla camera ardente Ai figli ricordava: «L’utile serve a far crescere l’impresa, non per la barca»

ASOLO. Si è spento nel giorno della festa del lavoro, nella casa accanto alla quale aveva costruito, mattone dopo mattone, la sua fabbrica. Lui che al lavoro aveva dedicato la sua vita, costruendo dal nulla quella che è diventata una delle più importanti fabbriche d’Italia di stufe e caminetti.

Domenico Piazzetta è morto all’età di 82 anni, lasciando in eredità alcuni rimpianti e molti insegnamenti. Nella lunga processione alla camera ardente, allestita tra i suoi caminetti nella sala esposizione dell’azienda, c’è tutto il racconto della riconoscenza e dell’amicizia che i lavoratori, gli ex dipendenti in pensione, i fornitori e gli agenti hanno riservato a questo imprenditore coraggioso e visionario, tenace e mai domo.

Nato ad Asolo il 24 novembre 1935, quinto di sei figli, unico maschio, resta orfano di padre appena quindicenne. Sulle sue spalle la responsabilità della famiglia. Dopo una breve esperienza in Svizzera, fonda nel 1960 prima la Deas, poi la Edile Pedemontana, infine la Asolana Caminetti, che nel 1976 diventa la Piazzetta. I suoi caminetti, autentici capolavori di innovazione e tecnica, entrano nelle case degli italiani e si fanno conoscere negli Stati Uniti. Con il brevetto del sistema Multifuoco aumenta in modo esponenziale la resa dei suoi prodotti e l’impresa diventa punto di riferimento internazionale, lui diventa per tutti il Signor Multifuoco. Acquisisce la Superior, considerata il leader del mercato italiano, inventa i Multipli Piazzetta e lo Stubotto, lancia la stufa a pellet e Piazzetta Design. Oggi l’azienda vanta ricavi per 47 milioni di euro e ha più di duecento dipendenti.

«Ho sempre pensato che il compito dell’imprenditore fosse quello di fare innovazione, di inventare nuovi prodotti e nuove soluzioni. Se un imprenditore non ha il fuoco dell’innovazione dentro è meglio che cambi mestiere» raccontò alcuni anni fa nel libro «La magia del fuoco». Del resto, il fuoco l’aveva nel sangue, se è vero che da bambino proprio giocando con dei fiammiferi rischiò di distruggere il porcile di casa. Legatissimo ai suoi dipendenti, ne ricordava nomi e cognomi, parentele e reparto: «Sono convinto che senza l’apporto dei miei dipendenti, dal più umile al più qualificato, non avrei saputo creare una realtà industriale come l’attuale. Sono loro che hanno assecondato e sviluppato le mie intuizioni, accompagnato le mie ambizioni, a volte fermato i miei errori» sono le sue parole. Casella d’Asolo era stata la prima fucina dei suoi lavoratori: «Penso che sia un grande vantaggio disporre di lavoratori della zona, che abitano vicino alla fabbrica. Coltivano un attaccamento maggiore per l’impresa, la sentono in parte come propria». Fino a quando le forze glielo hanno permesso, era l’ultimo ad attraversare fabbrica e uffici, spegnendo le luci.

Sofferente da tempo, continuava a tenersi aggiornato sull’azienda, non lesinando consigli e suggerimenti. Cavaliere al merito della Repubblica, ripeteva: «L’utile della ditta va investito nell’impresa: non per comprarsi la barca o la villa in Sardegna». Lui del resto amava la sua fabbrica sopra ogni cosa: nonostante la crescita industriale e la fame di spazi, impedì la demolizione del suo primo capannone, che ancor oggi separa la distesa industriale dall’abitazione dove si è spento.

Daniele Ferrazza

Riproduzione riservata © Tribuna di Treviso