Sylla, che schiacciata Contro razzisti e bulli «Sarò la più forte»

Si svela, parla di sé, della sua infanzia difficile, della famiglia, del volley, allo stesso tempo grintosa e dolce, timida e affamata di vita: Miriam Sylla ha descritto se stessa con una penna da autentica fuoriclasse in un testo lungo e denso di immagini ed episodi per “The Owl Post”. Della schiacciatrice dell’Imoco esce un autoritratto a tinte forti, in cui i genitori ivoriani giocano un ruolo fondamentale: come quando doveva mentire alla maestra che passava tra i banchi per raccogliere la quota di partecipazione alle gite scolastiche. «Me li sono dimenticata a casa», diceva sapendo che a casa di soldi ce n’erano pochi e volendo trovare una scusa per non averli portati; papà Abdoulaye la rassicurava con ferma dolcezza che il denaro glielo avrebbe dato nei giorni successivi. E le gite Miriam le ha fatte tutte. «Prendi i biscotti che vuoi» le diceva mamma Salimata; e Miriam sceglieva quelli meno cari: «Era giusto prendere quelli».
Sylla la conosciamo e la riconosciamo per la sua, ancor giovane, carriera da atleta: la sua espressività facciale, il suo urlo dopo una schiacciata, lo sguardo attonito dopo un errore l’hanno resa popolare ai Mondiali, anche agli occhi del suo concittadino palermitano Sergio Mattarella. Atteggiamenti che trovano radici nel passato. Dal mare e dal caldo della Sicilia al freddo e alle neve della bergamasca, dove poi i Sylla si sono trasferiti: qui un giorno l’auto rimase bloccata nella neve e mentre la piccola Miriam restava nell’abitacolo, papà e mamma spingevano da fuori. «Non voglio questa vita per loro» si disse; e quando il volley è entrato nella sua vita alle superiori, ha concentrato lì tutte le sue forze, fissando un obiettivo: diventare «la giocatrice più forte del mondo».
Gli ostacoli ci sono e anche la concorrenza, così come c’è la rabbia per le ingiustizie subite: «Sul pullman per andare a scuola c'erano 4 ragazzi, sempre loro, che prendevano il mio zaino, lo aprivano e buttavano la mia roba ovunque, in mezzo ai sedili, mentre mi prendevano in giro pesantemente». Lei reagiva, ma solo a parole: papà e mamma non volevano che alzasse mai le mani contro nessuno. «Ma del fatto che qualcuno possa dirti negra, oppure puzzi, oppure sei fatta con la merda, nessuno ti avvisa». Ancor più difficile è stato reagire ai feroci commenti che l’hanno raggiunta dopo le accuse di doping («era una semplice contaminazione alimentare»); l’ha sostenuta in questo il suo fidanzato, mentre lei si sentiva accerchiata. In quel periodo arrivò anche la notizia della malattia della madre: Miriam avrebbe voluto smettere di giocare per starle vicina, ma si è fatta convincere a scendere ancora in campo, aiutando così cura e guarigione. «A Babbo Natale non ho mai creduto» scrive ancora, ricordando la gioia di aprire i regali dei genitori che avevano fatto dei sacrifici per compraglieli. «Mi ricordo tutto».
A ridosso di tre gare importanti, dopo qualche prova deludente, Miriam è concentrata sul lavoro da fare: ricordarsi di essere se stessa anche in campo. E schiacciare forte. —
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