Pillastrini: l'allenatore del momento

Le moto, Gallinari, la famiglia, la scaramanzia, la dieta, John Belushi. E un nemico: la fretta
Frigo Treviso stefano pillastrini allenatore Treviso basket in foto con la sua moto
Frigo Treviso stefano pillastrini allenatore Treviso basket in foto con la sua moto

Arriva al tempio storico del basket (Due Mori) con l’Harley Goldwing, la più carrozzata, la più adatta alla sua stazza. Ma ne ha una anche sua moglie, una 883, più snella. È, in questo momento, l’uomo più amato dello sport trevigiano. Stefano Pillastrini, detto Pilla, cento....anta chili bagnato e da confessare, è letteralmente adorato dai tifosi della De’ Longhi basket, che naviga a otto vittorie su otto incontri. Voglia di A1? Lui frena, dice che a farsi male si fa presto, che il pubblico trevigiano sa rispettare i tempi corretti, memore di qualche amarezza di troppo. L’intervista parte dalla faraona con la pevarada e dalla moto.

L’Harley Davidson è una moto mitica. Quanto è importante il mito nello sport?

«Quel che ci si porta dietro del passato è importante. Certo, è un termine di confronto a volte imbarazzante, ma anche un punto d’arrivo. Quando hai allenato in piazze come Bologna, Pesaro, Varese, ora Treviso, lo sai. Certo, può essere un’arma a doppio taglio. La fretta di tornare mitici fa brutti scherzi, ma a Treviso per fortuna mi pare ci sia buon senso».

Perchè preferisce le squadre giovani. E chi l’ha delusa?

«Il mio modo di allenare s’adatta ai giovani. Nessun giovane mi ha deluso e, semmai, qualche dolorino me l’hanno dato quelli più esperti, ma niente di grave».

Lei sa caricare il pubblico e sa indurlo, con un gesto o uno sguardo, a dare forza a chi, magari, in campo stenta un po’ : come fa?

«Mi succede qui a Treviso. C’è una bella identità comune tra squadra e pubblico, un’osmosi che difficilmente ho trovato altrove. Certo, io un po’ ci gioco, ma in senso buono e a fin di bene. Bella storia».

Qualche suo collega difende la squadra ergendosi a scudo e giustiziere. Lei, invece, lo fa con la calma. E’ un’arma più efficace?»

«E’ difficile tenere l’autocontrollo. Non è indole, insomma. Ci sono giocatori che prendono energia dall’emotività, ma, proprio perchè ho a che fare spesso con i giovani, so che il messaggio che viene da un allenatore obiettivo è importante. Se riesci a non far perdere le staffe a chi è in campo e a comunicare fiducia, fai bene il tuo lavoro».

Quanto è importante tornare a casa propria dopo una sconfitta o dopo una vittoria?

«La famiglia, l’ambito familiare aiuta a relativizzare la sconfitta e la vittoria, che non sono la morte e la vita. Le pene, i guai veri, sono altri . Eppure a casa mia si parla di basket eccome, anzi posso dire che gli esami post partita partono da qui: mia moglie giocava, i due maschi han mangiato pane e palla a spicchi, Per fortuna mia figlia si è estraniata; veniva alla partita e alla fine chiedeva: ma hai vinto o perso, papà?».

Ma lei ha giocato o no? E perchè i grandi allenatori raramente sono stati grandi giocatori?

«Ho giocato a Bologna nelle giovanili fino ai 20 anni. No, non ero un asso. A insegnare va meglio colui al quale non riesce facile tutto: sa come si fa, qual è la tecnica per riuscire a fare quella cosa».

Il lavoro, gli affetti, l’apprendere, il ridere. Li metta in ordine d’importanza...

«In testa gli affetti, sono la base sicura dalla quale partire. Poi il ridere, perché la leggerezza fa bene. Attenzione: la leggerezza consapevole, non la superficialità. E quella leggerezza deve partire da una consapevolezza: stai facendo per lavoro, quindi pagato, ciò che ti piace fare e che faresti per hobby. Che bello».

Quanto è importante la forgiatura di una squadra prima che inizi il campionato?

«Per me moltissimo. Mi piace cominciare la preparazione con la squadra già al completo, stranieri inclusi. Quest’anno qui non è stato possibile fino in fondo, ma per me è fondamentale. E quando ci si prepara si lavora su ciò che non si sa fare bene, non approfittando delle doti che già si hanno. In preparazione abbiamo perso molto, ma in campionato è andata bene. Dunque il modello è corretto».

Se fosse un attore?

«John Belushi».

Se fosse uno scrittore?

«Ho fatto lo Scientifico, mi piace Manzoni».

Un musicista?

«Bruce Springsteen, dai».

Un atleta?

«Michael Jordan».

Film o libro?

«Un film, non ho pazienza: un libro devo divorarlo in un giorno».

Quale rapporto con il cibo?

«Non riesco a osservare una disciplina. Il rapporto è disordinato, son perdente e felice».

Un allenatore che vorrebbe essere?

«Phil Jackson perchè è sempre riuscito a far diventare squadra anche le stelle più grandi e apparentemente egocentriche».

La malizia è negli occhi di chi guarda o nella realtà?

«Nei fatti, inutile fare le vittime. Ma se credi in te stesso, non ti imbarazza l’apparente malizia di una domanda».

Uno più uno?

«Nello sport può fare tre, meno cinque, qualsiasi cifra. Lo sport non è matematica».

Il giocatore che ha scoperto e quello che avrebbe voluto scoprire?

«Ho avuto in squadra numerosi talenti. Ho trattato con il papà di Gallinari quando Danilo aveva 17 anni, ma se l’è poi preso Milano per una questione di comodità. Sinceramente un’occasione persa per me».

Basket addio. Che sport potrebbe allenare?

«Allenare? No, ci vuole competenza. Ma l’esperienza di coach è trasversale e magari introduttiva per ruoli dirigenziali, tipo team manager, organizzatore, figura di raccordo».

Scaramantico?

«Adesso no, ma lo sono stato. Il primo anno che ho fatto qualcosa d’importante, a Trapani, mi sono a lungo addosso la stessa maglietta. Ha portato bene anche contro la Benetton. Poi mi sono rilassato e da allora cambio calzini e maglietta regolarmente, con grande sollievo di chi mi sta attorno».

Antonio Frigo

Riproduzione riservata © Tribuna di Treviso