«Il mio scudetto con Riva e Albertosi e Cagliari è diventata tutta la mia vita»

TREVISO
Dai brindisi con Walter Chiari alle torte lanciate sui vestiti, dal legame inscindibile con i compagni alla dichiarazione d’amore per la Sardegna. Adriano Reginato, 82 anni, secondo di Albertosi nel Cagliari dello scudetto, fruga nella memoria ed è quasi un delitto interromperlo dopo un’ora, perché l’intervista è già bella ricca di episodi e riflessioni. L’emergenza sanitaria ha impedito a quella mitica truppa rossoblù di festeggiare degnamente i 50 anni dallo scudetto. Ma c’è pure l’altra faccia della medaglia: in questi giorni orfani del calcio giocato, c’è stato più tempo per rievocare l’impresa irripetibile di Gigi Riva e compagni. Cui prese parte Reginato da Carbonera: nel 1966, l’ex portiere del Treviso si trasferisce a Cagliari e da lì non si sposta più. Ora si gode tre figli e quattro nipoti, mentre nella Marca è rimasta la sorella Fanny: abita a Castagnole.
Reginato, se lo ricorda il giorno dello scudetto?
«Come fosse ieri. Un traguardo meraviglioso. Una squadra fortissima. E un gruppo legato da un filo d’acciaio, amici prima che compagni di squadra. Ma fin quando Sandro Ciotti non grida “Cagliari campione d’Italia”, non siamo sicuri di portarlo a casa. Un mese prima potevamo chiudere i giochi, ma pareggiamo 2-2 con la Juventus: la concorrenza c’è, non si può dare nulla per scontato. Così, dopo i punti decisivi con il Bari, l’esultanza diventa sfogo liberatorio. Un’esplosione di gioia».
Aneddoti sulla festa?
«La sera ci ritroviamo a casa del direttore sportivo Arrica. Siamo un bel gruppetto, qualcuno è con la moglie. Ci sono Riva, Gori, Domenghini. S’aggrega il mitico Sandro Ciotti. E ci sono, soprattutto, Walter Chiari e Alida Chelli. Si beve champagne, sui vassoi dolci tipici alle mandorle. Chiari ci delizia con le barzellette, un paio d’ore di battute e divertimento. Walter era nato per far ridere, lo guardavi e ti metteva allegria. Quella sera è uno di noi, ci tiene a festeggiare il titolo con la squadra».
Walter Chiari a parte, altri risvolti simpatici?
«Bisogna rievocare la cena della festa scudetto. Tempo qualche ora dopo e ci si dà appuntamento al ristorante “Al Corsaro”. Così inauguro il vestito comprato per l’occasione. Peccato i compagni, una banda di mattacchioni, inizino a tirarsi addosso le fette di torta. La panna si spiaccica sull’abito, il danno sarà irreparabile. Provo a portarlo in lavanderia, ma le macchie non spariscono. Morale della favola: quel vestito l’ho usato solo una sera».
Era al Cagliari già dal ’66, fece storia per l’imbattibilità nelle prime sette giornate. Ma nell’anno dello scudetto ha davanti un certo Albertosi e la partecipazione all’impresa si limita ai 20 minuti simbolici giocati nell’ultima partita con il Torino: rimpianti?
«No, Albertosi aveva qualcosa in più. Era un Gigi Buffon. E per come sono fatto io, per com’è il mio carattere, vivo quella stagione come un titolare. Mi alleno duramente, come se il mio turno debba arrivare da un momento all’altro. Enrico l’avevano preso la stagione precedente, portiere di personalità e numero uno della Nazionale. E, al suo arrivo, non le mando a dire: “Farò di tutto per meritarmi il posto”. L’allenatore Scopigno mi convoca: “Guarda che so tutto. E so pure che lei sa valutare la situazione”. Fra noi non c’è mai stata rivalità, un rapporto splendido. Tanto che Albertosi ha fatto pure da padrino a mia figlia».
Una squadra di amici, tanto che in otto siete rimasti a vivere a Cagliari. Come mai?
«Quell’esperienza, specie l’anno dello scudetto, ci ha legato tantissimo. Amici e fratelli in campo, ma anche fuori dal campo. C’è un’immagine che rende forse l’idea: cinque anni fa, al funerale di mia moglie, si presentano tutti e riescono quasi ad alleviare il dolore. Giusto per dire quanto eravamo e siamo uniti. Non abbiamo mai perso la tradizione di vederci a cena: il ritrovo è sempre stato il “Montecristo”, nella centrale via Roma. Rigorosamente pesce. L’ultima volta, sei mesi fa. Peccato quattro compagni non ci siano più: Martiradonna, Mancin, Zignoli, Nené».
E la permanenza nell’isola?
«Dopo aver smesso di giocare, mi propongono di fare il responsabile del settore giovanile. Nel mentre, lavoro come assicuratore con Greatti: qualche cliente me lo sono tenuto, nel tempo libero do tuttora una mano. E poi: dove trovi un posto come Cagliari, un mare dalle tonalità meravigliose come quello sardo?».
C’è un “Cagliari” nella Serie A di oggi?
«L’Atalanta. Ci avesse creduto dall’inizio, avrebbe potuto puntare allo scudetto. Adoro Gasperini, una squadra fatta per vincere».
I rossoblù di oggi?
«Andavano fortissimo, potevano mirare all’Europa League. Poi un po’ di sfortuna, hanno perso morale per qualche risultato. E il giocattolo si è rotto. Speriamo di rilanciarci con Zenga».
E il Gigi Riva del 2020?
«Non c’è. Gigi è unico, inimitabile. Concluso l’allenamento, si fermava una mezz’ora buona. A calciare in porta, a tirare all’infinito. Una volontà di ferro, una grinta eccezionale. E, fra i pali, lo “aspettavo” sempre io: fino a quando non beccava il sette, non c’era verso di rientrare negli spogliatoi».
Fra i portieri, chi ammira?
«Olsson, Cragno, Szczesny. E pure Gollini: è cresciuto tantissimo». —
Mattia Toffoletto
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