«Capitan Pantani» L’ultimo gregario racconta il suo pirata

Ivan Ravaioli, romagnolo-trevigiano, gli fu accanto al Giro del 2003, quello prima della morte avvenuta dieci anni fa

Ci hanno marciato in tanti. Da Tonina e Paolo, i genitori - che ora si svegliano solo in febbraio, ma che gli segarono un sogno d'amore (Christin) e raddoppiarono la piadineria - ai giornalisti, italiani e stranieri che, fino al giorno prima, fingevano di credere che le droghe fossero cannella e chiodi di garofano. Gli hanno mangiato in tasca in tanti: dalla manager che fino al giorno prima della Panta-cuccagna si curava solo dei destini di giocolieri e ballerine di night, ai buttafuori di disco che grazie a lui aprirono miracolosamente concessionarie di auto di lusso. Dalle parenti strette in cerca di marito, ai ristoratori che ne ospitavano, sul molo di Cesenatico, qualche serata speciale pagata da chi gli doveva molto e gli chiedeva di più.

Lui intanto è morto. Dieci anni fa. Già dieci e sembra ieri.

In una nuvola di coca (si aiutò più per vivere che per vincere), in un residence tanto schifoso... da essere stato raso al suolo poco dopo (stupidi, ci avrebbero fatto un mare di sodi con i pellegrinaggi), moriva, il 14 di febbraio, San Valentino, solo come un cane Marco Pantani, il Pirata del ciclismo. «Non so se ciò che si è detto dopo è vero. Di sicuro io ho conosciuto un personaggio straordinario. L’ho conosciuto quando non vinceva più, ma era il mio capitano. E dove arrivavamo noi non c’era spazio per nessun altro. Le altre squadre erano davanti al duomo e noi in periferia? La gente era lì, da noi della Mercatone. Era stato per me un mito e scoprii, in quel 2003 in cui gli corsi al fianco al Giro, che era una bella persona», dice il trevigiano Ivan Ravaioli. attuale consigliere - non per palmarès ma per via del detto “suche tante, semense poche”, dell’associazione che riunisce i ciclisti professionisti italiani, Accpi.

Il “personaggio” Pantani fu ragazzo mite, nato in una regione, la Romagna, dove se sei gentile sei un "patacca" e quindi devi assolutamente attrezzarti per essere mitico, altro che mite. Se sei 57 chili “bagnato e da confessare”, non è certo il fisico a fare la differenza. Devi essere bravo a far qualcosa. Lui sapeva scalare le montagne in bicicletta come nessuno. Se qualcuno dice il contrario è davvero... patacca. Cinque anni prima di quel febbraio 2004 lo avevano beccato "non negativo" - definizione post democristiana degna di "convergenze parallele" - a Madonna di Campiglio, poco prima che partisse la penultima tappa del Giro che lo avrebbe incoronato vincitore sul Gavia e, poi, sul suo Mortirolo. Niente sconti: aveva pestato i piedi ai francesi e andava punito. Era dopato? «Era come tutti gli altri. Quindi era meglio di tutti», disse il grande Giorgio Lago. In quel momento era lui il re. E bene avrebbe fatto, invece che ripiegarsi su se stesso in una difesa sdegnosa consigliatagli da chi ci mangiava sopra, a dirlo a chiare lettere.

«Il mio Pantani» spiega il gregario Ravaioli, ravennate che oggi abita nella Marca e lavora per un’azienda della Sinistra Piave «è un campione un po’ appesantito rispetto al leggero e feroce pirata che buttava la bandana e lasciava tutti là, sui pedali, andando a vincere sulle salite più belle. Ma è anche quello che mi accoglie in squadra dicendomi: “sei quello bravo, che ha vinto due tappe alla Bergamasca”. Gli avrei portato la bici tutte le mattine, gli avrei passato cinquanta borracce: in mezzo a tanta gente che si dava le arie, lui era uno giusto», dice Ivan. «Nella tappa di Pampeago arrivai con 50’ di ritardo anche perchè in mezzo alla salita, finita la corsa, c’era la gente che scendeva a piedi. La sera Pantani vide il comunicato e s’arrabbiò: chiamate la giuria, questo ragazzo paga una colpa non sua, disse. Un altro avrebbe fatto spallucce. Lui no».

A dieci anni di distanza la Marca non dimentica Pantani, riconoscendo il campione che c’era in lui. A Riese gli hanno dedicato un viale. A Treviso non dimenticano la crono del Giro del 2 giugno 1999 da lui corsa prima di salire all’Alpe di Pampeago. Il giorno dopo arrivò il verdetto di esclusione con un comunicato vergato, in tutta fretta, sul tetto di un’auto, dal patron Castellano. Fu l’inizio della fine.

A Treviso, insieme al presidente Fci Ceruti, tornò il 16 luglio, alla Ghirada, per annunciare il rientro in gara, giusto per onorare i mondiali di Verone e della Marca. Poi il declino.

Toni Frigo

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