Calcio, Marchesini crea la generazione dei nuovi talenti

È il responsabile dei Centri tecnici federali: «Sarà il giocatore pensante a vincere tutto»

MONTEBELLUNA. Prendete la cantera del Barcellona, la scuola di magia di Hogwarts, un sano pragmatismo montebellunese. Un modello, se vogliamo, che punta a creare una nuova era d’oro del calcio italiano, rivoluzionando l’intero sistema dell’apprendimento e dello sviluppo del gioco. È la missione di Maurizio Marchesini, 43enne di Montebelluna, che ha deciso di lasciare la panchina per coordinare l'attività dei Centri tecnici federali della Figc, che stanno crescendo come funghi in tutta Italia - il primo nella Marca è nato a Istrana - con lo scopo di far crescere al meglio le nuove generazioni di talenti.

«A Roma c'è la base, ma poi si viaggia molto», sono le parole di Marchesini, «in treno, principalmente, perché così ho più margini per lavorare: l’iPad è sempre acceso. Porto in giro il format di allenamento da estendere in tutti i centri federali italiani».

Entriamo nel dettaglio: cos’è un centro federale Figc? 

«Usciamo dalla burocrazia: è la casa di ogni associato Figc. Oggi la Figc è presente sul territorio con un metodo unico e con tutte le sue componenti: Club Italia, il calcio femminile, il Settore giovanile e scolastico, gli arbitri, gli allenatori ed i giocatori».

Stiamo parlando dello stesso centro aperto a Istrana poche settimana fa. Ma quanti ce ne sono in Italia? 

«Oggi 20. Tra un anno 40. Un domani non molto lontano 200. Ne stiamo aprendo parecchi. Dipende dalle società e dai comuni, serve una manifestazione d'interesse. Poi chiaro che si cerca di ponderarli, non ha senso aprirne uno a Paese se c'è quello a Istrana. A regime dovrebbero essere 18 in Veneto. Io seguo il personale, sul posto c’è sempre un responsabile con 5 tecnici. L'idea è costruire un sistema che consenta anche ai tecnici di levare l'ansia e aumentare la motivazione».

Quindi come avviene il contatto diretto con i vari Cft?

«Solitamente il lunedì visito e verifico un centro, e do consigli sull'allenamento. Puntiamo sulla capacità di allenare e su determinati esercizi. L'importante è seguire certi schemi, ma il cambiamento è necessario. Nei centri federali puntiamo su Under 13 e 14 maschile e Under 15 femminile. Su quest’ultimo in particolare: ci crediamo moltissimo, è un calcio che può avere un grandissimo impatto, in questa fase superiore a quello degli uomini».

È un concetto molto vicino a quello della cantera del Barcellona?

«Noi gli alleniamo una volta alla settimana, ma l’impegno del lunedì non può bastare. Tutti gli allenatori sono molto molto giovani, noi passiamo il metodo di lavoro, i tecnici si avvicinano e ricevono formazione. I nostri allenatori poi sono nelle varie società il mercoledì e il giovedì, sabato e domenica vanno a vedere le partite. Non c’è sosta».

È un mondo così distante da quello che ha vissuto ai suoi inizi?

«Sono cresciuto calcisticamente nel San Gaetano, lì è nata la passione per allenare. Ho cominciato con i piccoli amici a 25 anni dopo un infortunio: una grande occasione. Poi sono finito al Montebelluna, una fucina di talenti, mi sono potuto confrontare con persone dalle grandissime qualità umane, che mi hanno dato moltissimo. Poi il Giorgione, una vera e propria università, dove ho messo in pratica diverse idee. Lì ho capito che poteva diventare un mestiere» .

Da lì il salto in Federazione?

«Prima sono passato al Pordenone e nelle rappresentative Figc. Ci sono i rapporti con direttore, presidenti e colleghi da gestire, tutto professionale. Posso dire di aver vissuto il calcio da giocatore, in primis nella vita di spogliatoio, il calcio da allenatore (15 anni con giovanissimi e allievi), il calcio da responsabile del settore giovanile e i primi rapporti con dirigenti e genitori, e la vita da federale, in particolare legata alle istituzioni). In fondo alleno ancora: conduco gruppi di allenatori e li porto a dare il meglio in campo».

Nei suoi incontri lei pone l’esempio di un tema da scrivere in 10 righe: prima spiega come si fa “meglio che potete, con i caratteri disegnati perfettamente, scritto benissimo”, rappresentando così la tecnica nel calcio come la scrittura delle lettere. E poi porta l’esempio dello stesso tema, ma da fare in 10 secondi.

«Non si non scriverà più così bene... Ecco com'è cambiata la tecnica nel calcio. Questo è uno dei sette pilastri della metodologia, l'intensità, che ci deve guidare sempre. Non scordiamo etica (rispetto e impegno), gioco (divertirsi e sorridere), orientamento (sapere sempre dove ci si trova in campo), portiere (un giocatore in più in fase di possesso), tecnica (esecuzione ripetuta dei gesti tecnici) e transizioni (perdo palla e la recupero). Dobbiamo fare capire che i giocatori sono i protagonisti della scelta. Le situazioni in panchina mi hanno aiutato a leggere, a essere empatico, l’essere stato allenatore è un’esperienza impagabile. Oggi non riesco a capire come si faccia ad arrivare senza aver provato, fallito ed essere ripartito. Senza aver fatto la gavetta».

Quindi due figure come Guardiola e Inzaghi, che hanno saltato la gavetta compiendo però percorsi diversi, non la entusiasmano?

«Due esempi calzanti. Ma per i grandissimi non c’è una regola: Guardiola ha fatto la gavetta in campo, allenava mentre giocava. Questi sono fenomeni, sono i Van Gogh. Montella decide di smettere e allenare, e ce la fa alla grande. Ma non guardiamo solo ai Van Gogh, guardiamo a tutti i pittori, e non tutti hanno il dono. E' lì che si inserisce il concetto di lavoro per crescere».

Vale per l’allenatore come per il giocatore?

«La tecnica è importante, ma a noi interessa più la struttura del “giocatore pensante”. In ogni allenamento deve pensare a ritmi elevati, e avere la libertà di scegliere più soluzioni. Come Sacchi? Beh, ha rivoluzionato il calcio. Noi vogliamo costruire una tipologia di calciatore che sia relazional-emotivo, e che voglia vincere tutto. Per quello c'è anche lo psicologo che ci segue».

C’è una crisi di giovani e di talento nel calcio italiano? 

«No. L’Italia rimane una fucina di talento senza eguali. Credo che dobbiamo fare un passo per aumentare l’intensità, che si traduce nel numero di ore di calcio dei più giovani, perché dopo meno di una decina d’anni nel settore giovanile l’approdo al calcio dei “grandi” non può arrivare dopo aver fatto per molti anni due-tre allenamenti la settimana. Troppo poca esperienza, e troppo poca intensità».

Ma cercate di creare una tipologia di calciatore in particolare?

«Non conosciamo come sarà il calcio nel 2030, quindi il riferimento non sappiamo se sarà Insigne piuttosto che Berardi. Perché più che all'aspetto tecnico e a quello atletico sono le caratteristiche relazionali-empatiche che ci interessano. Penso piuttosto a Marchisio, un leader, un esempio per lo spogliatoio. Ed è esile, non è un colosso come Khedira».

Quindi più che alla tecnica puntate sul talento in senso totale?

«Noi non facciamo il calcio inteso nel dettaglio, noi puntiamo più al modello. Il Barcellona ha il proprio, come l'Ajax e lo Stoke City, che forma giocatori strutturalmente enormi come Crouch. O il Belgio, che ha De Bruyne e Hazard. Ma, ribadisco, il cambiamento è necessario, c’è un progetto straordinario che deve crescere».

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