Bianca Rossi e famiglia, febbre da palla a spicchi

Lei, Bianca, campionessa indimenticabile, oggi vice coach. La figlia Alessia, 23 anni: gioca con il Ponzano. Il figlio Alberto, 20: arbitro. Il marito Vittorio: dirigente del Ponzano. A casa di Bianca Rossi si mangia pane e basket. Si respira pallacanestro. Una famiglia che, a vario titolo, si è dedicata totalmente alla palla a spicchi. Bianca, classe 1954, è il simbolo dello scudetto Pagnossin 1981: adesso nella sua Ponzano è attiva nella società locale. Niente di strano; ma il virus del basket l’ha trasmesso anche alla prole; il marito invece era già suo tifoso quando lei giocava. «Io a Vittorio, appassionato di sport e pure lui ex giocatore, devo dire solo grazie: non mi ha mai minimamente ostacolato, anche quando dopo lo scudetto dovetti trasferirmi a Milano. Si badi, non è che abbia sempre vissuto grazie allo sport: quando giocavo lavoravo nell’azienda Pagnossin. Ora più che altro al Ponzano faccio volontariato: dopo aver allenato a Montebelluna fino all’anno scorso ero a capo delle giovanili, oggi non più, lo stress di fare anche il dirigente era troppo. Quindi sono vice: in prima squadra e nel vivaio». La figlia di Bianca Rossi, cestista, non dovrebbe essere una sorpresa. «Non è così scontato. Alessia ora ha 23 anni, aveva iniziato a fare nuoto, era anche bravina, poi le piscine chiusero per motivi burocratici e così iniziò con il minibasket. Scelta sua, io non l’ho mai forzata. Anche Alberto aveva iniziato con il minibasket ma era più attirato dall’arbitraggio: infatti ha mollato il primo per fare il secondo». L’altra settimana ha diretto Magigas Treviso-Conegliano, che sono nel girone della squadra della mamma. Fatta salva, ovvio, la buona fede, è sembrata una scelta poco opportuna. «Il designatore lo conosce bene, sa che Alberto è al di sopra di queste cose». Ma com’è la giornata della famiglia baskettara? «A pranzo ci vediamo, a cena è più dura: mentre le donne sono in palestra i maschi mangiano. Alessia lavora in uno studio notarile, Alberto in una officina: entrambi hanno studiato scienze sociali e vivono con noi. Non è facile trovare una famiglia come la nostra, però è bello: piuttosto che i figli vadano in giro chissà dove alla sera, o che giochino a pallone, molto meglio che facciano pallacanestro».
Perché il calcio no? «I calciatori in genere sono degli arroganti, invece a Ponzano lavoriamo sull’educazione: ma se non gliela insegniamo da ragazzini, quando lo faremo? Di recente sul tema abbiamo organizzato un incontro con l’arbitro Roberto Chiari. Ma l’educazione riguarda anche i genitori, e devo dire che a Ponzano siamo ancora abbastanza fortunati. Per me lo sport è stato fondamentale, ma non l’ho mai vissuto con l’unico scopo di sfondare a tutti i costi. Ho sempre giocato con lo scopo di divertirmi, oggi invece conta solo il risultato. Capiamoci: a perdere non ci stavo mai, ma una volta finita la partita, amici come prima. Ciò che poi da allenatrice ho cercato di insegnare ai bambini è il puro divertimento di stare in campo, il piacere unico di giocare a pallacanestro».(s.f.)
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