Olimpia Biasi: «Con Naldini e Zanzotto a ricucire i fili della cultura con un po’ di lucida follia»
L’artista rievoca l’offerta culturale di un tempo, le gallerie e i loro protagonisti: «Oggi è tutto spalmato, diffuso, ma anche meno incisivo»

La panchina è sempre stata lì, a un passo dall’acqua. Olimpia Biasi vi si accomoda come si fa quando si torna in un luogo familiare: senza rumore, senza spiegazioni. La città scorre, lei la osserva. E in quell’osservare, qualcosa si riannoda. Negli anni Ottanta insegnava Disegno e Storia dell’arte alle medie Giacomelli, proprio a due passi da qui. La scuola affacciava sulla chiesa di San Francesco e sulla città che Olimpia portava letteralmente “in classe”, anzi: fuori dalla classe.
Imparare a vedere
«Portavo i ragazzi a leggere le architetture. Li conducevo davanti alle facciate per riconoscerne il tempo. Non mi interessava che sapessero disegnare bene: mi importava che imparassero a vedere. A fare collegamenti. A guardare la città come un grande libro aperto».
Treviso, racconta, l’ha attraversata così, «in lungo e in largo con i miei ragazzi», e le è rimasta sotto pelle. Ora che vive fuori, nella campagna, è come se sentisse una nostalgia fisica, un richiamo.
Sta lavorando a un progetto fatto di sguardi e memoria: “Saluti da Treviso”, una serie di cartoline disegnate da scorci reali, come un ritorno affettuoso, non turistico ma intimo. «Mi fermo, fotografo, poi disegno. Mi interessa il punto in cui natura e città si toccano. Il ramo di un albero che entra nella prospettiva di un ponte. La luce che cade sull’acqua. È lì che Treviso diventa se stessa».
Da Naldini a Zanzotto
Ma adesso Olimpia Biasi vorrebbe sedersi in ascolto. Ed è qui che immagina Nico Naldini e Andrea Zanzotto, ancora vivi nel gesto del pensare, che parlano di Giovanni Comisso: forse una scena realmente avvenuta, ma alla quale la pittrice trevigiana vorrebbe assistere in silenzio.
«Io non direi nulla — dice — ascolterei. Perché loro due, insieme, aprivano mondi. Partendo da Comisso sarebbero arrivati ai lirici greci, alla memoria, alla storia, al destino culturale di questa città. Io starei lì, ad ascoltare. È quello che mi manca».

Olimpia, che ha conosciuto Nico Naldini da vicino, per molti anni, l’ha respirata davvero, quella stagione che ha legato Treviso alla letteratura italiana e non solo. «Quello è stato un privilegio grandissimo. Naldini mi aveva adottata, avevamo un rapporto affettivo. E grazie a lui ho conosciuto da vicino Magris, Rigoni Stern, Arbasino, Moravia… Fellini; venivano qui, in città, e parlavano, discutevano, vivevano la cultura non come monumento, ma come scambio. La cena del Premio Comisso era un rito. E poi c’erano i colloqui privati, in studio, dove si parlava di tutto: dai lirici greci alla critica contemporanea. Era una stagione di profondità. E io ascoltavo».
Poi sottolinea una cosa con delicatezza, senza rimpianto, ma con lucidità: «C’era una unità del paesaggio culturale. C’erano figure che tenevano insieme le idee. Naldini, Boccazzi, Mazzotti, Tognana. Erano personalità forti, riconoscibili. Oggi c'è un grande fermento — associazioni, iniziative, mostre, festival — ma tutto è molto spalmato, diffuso. E quando tutto è diffuso rischia di diventare meno incisivo». Treviso, dice, non ha smesso di essere città culturale. Non è vero che “non c’è più niente”. È che manca una regia, una direzione comune.
Coraggio e sana follia
«Ci sono tante cose buone — continua — ma si disperdono. Bisognerebbe farle coagulare, riconoscerle, darle un respiro più forte. Non serve molto: serve coraggio. E un po’ di quella che chiamo lucida follia, la capacità di alzare l’asticella. Non per fare di più, ma per fare meglio».
Olimpia cita la Fondazione Benetton: «È un’eccellenza. È un laboratorio culturale straordinario. È un fiore all’occhiello. Ma la città deve sentirlo suo. E la Fondazione deve aprirsi di più alla città. La distanza a volte è stata reciproca. Adesso si sta lavorando diversamente, ma Treviso dovrebbe avere la consapevolezza del valore di ciò che possiede». Poi arriva un punto importante, che riguarda noi, non le istituzioni: «La gente ha fame di cultura. Lo dico perché lo vedo: quando apriamo luoghi con il FAI, arrivano a centinaia. Anche sotto la pioggia. Non è vero che servono discorsi semplici. La gente capisce benissimo la profondità, se la si offre con chiarezza. Bisogna smetterla di abbassare l’asticella. Si deve indicare la qualità».
La Treviso delle gallerie
E a questo proposito Olimpia Biasi svela il suo sogno: «C’era un tempo in cui a Treviso le gallerie contavano davvero», dice. «Torbandena, L’Elefante, la Galleria Borgo, il Barbacan… Ognuna aveva una linea, una forza, un criterio. Si cresceva così: guardando, confrontando, discutendo. Sogno di rivedere una galleria di qualità, affidata a un curatore vero. Qualcuno che scelga le opere per ciò che valgono, non per amicizie o equilibri. Un luogo che faccia crescere chi espone e chi guarda. Non un tempio esclusivo: un punto di riferimento».
Biasi vede lucidamente quello che non c’è più a Treviso e aggiunge: «C’era anche la TRA – Treviso Ricerca Arte. Un’esperienza importante, giovane, viva, che per qualche anno ha trovato casa a Ca’ dei Ricchi. Facevano mostre, incontri, dialoghi sul contemporaneo. Era un luogo in cui si cresceva perché ci si metteva in discussione. Poi è mancata una sede stabile. E quando manca una casa, le energie si disperdono. È stato un peccato. È lì che si vede la differenza tra una città che accoglie e una che osserva da lontano».
Cultura come bandiera
E la politica? Olimpia risponde senza amarezza, ma con precisione: «Il problema è quando la cultura viene usata come bandiera. E invece la cultura non è di nessuno. È di chi la cerca. È di chi la abita. Bisogna liberarla dagli steccati, permetterle di respirare».
Treviso oggi — nella lettura di Olimpia — resta una città splendida, un piccolo scrigno, un luogo che ha mantenuto intatto il suo centro come pochi. Ma ha un anello di cemento attorno, una pressione che rischia di soffocare la misura, la delicatezza, la relazione tra lo sguardo e il paesaggio. E allora, se Naldini e Zanzotto fossero qui, davvero seduti su questa panchina, cosa direbbe loro?
Olimpia guarda l’acqua. E parla piano: «Direi che lo spirito di Treviso c’è ancora. È nelle pietre, nelle acque, nella luce sulle facciate. Resta nella memoria dei luoghi. Resta nei gesti che si tramandano. Ma va custodito. Va coltivato. Va riconosciuto. E bisogna avere il coraggio di scegliere: di scegliere la qualità, di non disperdere ciò che conta».
Poi sorride di nuovo, con quella calma che si conquista solo guardando a lungo la bellezza: «Treviso è ancora se stessa. Ma bisogna continuare ad ascoltarla».
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