La Lega e il dissenso che cresce a Nord Est

La provocazione di Toni Da Re e la decisione del partito di espellerlo. E per far capire l’aria che tira, Salvini ha fatto avvertire i suoi che devono astenersi da qualsivoglia critica pubblica alla sua linea
Francesco Jori
Toni Da Re e Matteo Salvini
Toni Da Re e Matteo Salvini

Per Totò non era un’offesa, ma un consiglio: «Lei è un cretino, s’informi». Invece di prendere come un suggerimento la provocazione di Toni Da Re, verificarne il motivo e casomai smentirlo dati alla mano, l’autoproclamato Capitano leghista Matteo Salvini ha preferito sbrigativamente espellerlo per interposto subalterno.

E per far capire l’aria che tira, ha fatto avvertire i suoi che devono astenersi da qualsivoglia critica pubblica alla sua linea: se ne parla solo all’interno del partito. Giustissimo, se ci fosse un partito dove si discute, e non uno dove il Capo decide in blindata solitudine perfino di cambiargli nome e linea politica, senza uno straccio di confronto.

Per carità, le espulsioni nella Lega sono la regola già dalle remote origini venete, quando Bossi era ancora un signor nessuno: Franco Rocchetta, padre-padrone della Liga, era un buttafuori seriale, fino a subire il contrappasso della sua stessa cacciata a opera del senatùr; che di licenziamenti in tronco ha usato e abusato, a sua volta diventandone vittima nella farsesca notte delle scope.

L’unica cosa che Salvini non ha cambiato nel partito è stata la scelta di mettere fuori dalla porta chi dissente dalla linea del pensiero unico: che peraltro, a differenza del suo ben più carismatico predecessore, cancella l’identità stessa della Lega, sostituendola con un nuovo soggetto sovranista, populista, malpancista, tutto centrato sul protagonismo del leader.

Solo che questa radicale sterzata sta provocando un effetto collaterale ormai di tutta evidenza: l’autoespulsione dell’elettorato. Alla faccia del suo esasperato movimentismo, Salvini non riesce a schiodare il consenso da un abborracciato 8 per cento; ed è questo il motivo principale delle critiche sempre più consistenti che salgono dall’interno, di cui la sparata di Toni Da Re non è che il detonatore.

Il Veneto è l’epicentro del dissenso perché da sempre con la Lombardia è di gran lunga l’azionista di maggioranza della Lega; perché qui negli ultimi tempi ha subìto urticanti sconfitte a Padova, Verona e Vicenza; perché tra un anno si voterà per le regionali e intanto è stata ampiamente scavalcata da Fratelli d’Italia che rivendica la guida, alla faccia dei goffi tentativi di aggrapparsi a San Luca (Zaia) facendone una sorta di presidente a vita.

Ma il malessere va ben oltre i confini veneti, ed è destinato a presentare il conto alle ormai imminenti europee: se il dato fosse negativo, la “Lega per Salvini premier” cesserebbe inesorabilmente di esistere. E il dissenso dal Capitano si tradurrebbe in un ritorno al partito delle origini, legato alla tutela degli interessi del nord. Con chi alla guida?

Al momento, le bordate di Da Re sono destinate a rimanere isolate. Ma il giorno dopo la successione si aprirebbe. Con un candidato per ora silente, ma su cui convergono ampi consensi: Massimiliano Fedriga, che in punta di piedi ha saputo ritagliarsi un ruolo di livello nazionale. Molto più del pur gettonato collega Luca Zaia, che sembra incarnare il tipico detto veneto «mi non vado a combàtar».

Un Fedriga che comunque, rispetto a Salvini, richiama un’altra antica perla di saggezza sempre in salsa veneta: «Prima de parlar, tàsi».

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