«Un’educazione civica 2.0 sul corpo delle donne»

Lorella Zanardo oggi all’Auditorium Cgil per la rassegna “Pensare il futuro” «Sulla violenza, in Italia c’è bisogno di una formazione a partire dalla scuola»

La violenza sulle donne tema di attualità, non solo in Italia: nell'ultimo anno, lo scandalo Weinstein ha fatto emergere, anche attraverso il movimento #metoo, quanto siano diffuse le molestie sessuali che le donne subiscono, quotidianamente, in ogni parte del mondo. Lorella Zanardo, attivista, scrittrice, autrice del documentario “Il corpo delle donne” che, nel 2009, mostrava in modo impietoso la rappresentazione che delle donne dà la televisione italiana, sarà ospite oggi - l’incontro è in programma alle 17.30, all'auditorium Cgil - del Festival filosofico “Pensare il futuro”, per parlare proprio del futuro delle donne e di come superare la violenza di genere.

Conosciamo alcuni dati sulla violenza: un rapporto Istat del 2018 rivela che il 43,6% delle donne italiane tra i 14 e i 65 anni ha subito, almeno una volta nella vita, molestie sessuali; il 16% è stata vittima di stalking; 114 sono le vittime di femminicidio del 2017. In che modo la rappresentazione delle donne influisce sull'agire violenza nei loro confronti?

«Non si può dire, semplicisticamente, che ci sia un rapporto diretto di causa-effetto tra immagini e violenza. È però certamente vero che le immagini che usano corpi oggettivati, corpi che non sono più persone ma cose, favoriscono un clima in cui la violenza è ammessa. Nove anni fa il documentario “Il corpo delle donne” è stato un pugno nello stomaco per molti. E in molti l'hanno visto: 15 milioni di persone. Il nostro documentario mostrava immagini che erano sotto gli occhi di tutti perché trasmesse dalla televisione italiana: si chiudeva con l'immagine di una ragazza che, in un famoso programma, veniva appesa per le braccia e marchiata sul sedere, come si fa con un pezzo di carne. Le immagini erano, appunto, sotto gli occhi di tutti: eppure il commento più frequente che abbiamo ricevuto è stato: “Io guardo la tv, ma non me ne ero mai accorto”. Altri dicevano: “Beh, ma è uno scherzo, non è mica vero”. Invece non è uno scherzo: quelle immagini entrano in milioni di case creando un “effetto accumulo” per cui alla fine ci siamo talmente abituati che, appunto, non le notiamo nemmeno più. Lo sdoganamento è così totale che è difficile da far comprendere».

Lei ha presentato il documentario al Parlamento Europeo: come viene affrontato questo problema negli altri paesi europei? Vede una differenza con l'Italia?

«In Italia la violenza nelle immagini avviene sotto molte forme. Sui cartelloni pubblicitari ci sono moltissimi esempi di quell'oggettivazione che è premessa della violenza: si usano non tanto le donne, quanto pezzi di corpi di donne per vendere un prodotto. Se mostro l'immagine di un seno o di una coscia, senza volto, non sto mostrando una persona: sto mostrando una cosa. L'oggettivazione è deumanizzazione: e agire violenza su ciò che viene presentato come oggetto non viene percepito come grave. All'estero le cose sono diverse: dieci anni fa il Censis pubblicava “Donne e media in Europa”, mostrando come l'Italia sia un caso unico, in negativo. È una pratica molto italiana quella di mostrare in televisione donne-bambine, mute, con una semplice funzione decorativa: le veline, le schedine... Nel Regno Unito questo è molto limitato, e di sicuro non avviene sulle reti della BBC, della televisione pubblica».

Simone de Beauvoir apriva “Il secondo sesso”, nel 1949, dicendo: “A un uomo non verrebbe mai in mente di scrivere un libro sulla singolare posizione che i maschi hanno nell'umanità. Tra lotta per l'emancipazione e affermazione della propria differenza, quali sono le difficoltà che le donne affrontano per potersi autodefinire come il Soggetto che in realtà sono?

«Le difficoltà sono tante, e molte sono ancora da definire. È importante affrontare la questione del linguaggio: cioè iniziare a nominare il mondo anche al femminile. È un lavoro faticoso, che incontra molte resistenze, in particolare in una società fortemente patriarcale come quella italiana. Le cito Justin Trudeau, primo ministro canadese, che si autodefinisce femminista, e che a un congresso di Economia ha dichiarato: “E' chiaro che gli uomini non molleranno facilmente: bisogna che le donne lottino”. Non si può, insomma, pensare che sia facile. Certo, ci sono anche alcune donne che hanno assunto il modello maschile come vincente e si sentono sminuite se vengono definite al femminile (“la Presidente del Senato”, “la Segretaria del partito”, etc.). Bisogna però avere il coraggio di fare il primo passo: Angela Merkel si è da subito fatta chiamare “cancelliera”. La parola in tedesco, allora, non esisteva: ma tutti l'hanno sempre chiamata così, anche noi italiani che poi, paradossalmente, fatichiamo a dire “la Presidente del Senato”. Non è una questione marginale, né semplicemente grammaticale: è questione di dire che l'autorevolezza si può declinare anche al femminile».

Il corpo delle donne (2009) analizzava soprattutto la televisione. Diventano però sempre più importanti i social e la rete, sia per messaggi di denuncia (#metoo) sia per il cosiddetto “hatespeech”: cosa è cambiato negli ultimi anni in riferimento alla rappresentazione e alla violenza, di genere e non solo?

«In Italia c'è bisogno di fare “media education”, che è materia di insegnamento scolastico in molti paesi europei. I ragazzi vanno educati a decodificare le immagini: a capire che, per esempio, se durante un talk show quando parla una donna la telecamera le riprende le caviglie, le scarpe, si sta trasmettendo il messaggio che ciò che conta non è quello che dice, ma il suo corpo. Per questo abbiamo portato in moltissime scuole il nostro progetto “Nuovi occhi per i media”: una formazione dedicata agli insegnanti, che ultimamente si trovano ad affrontare tematiche che coinvolgono la rete: il cyberbullismo, lo hate speech. Ci piace pensare di promuovere la cittadinanza attiva: Internet non va né vietato né demonizzato: va però spiegato e reinventato, con una sorta di “Educazione civica 2.0”.

Con questo obiettivo, proprio il 3 maggio scorso abbiamo portato in scena la prima di una nuova conferenza-spettacolo intitolata “Schermi: se li conosci non li eviti”, che parla proprio di questi temi. Gli stereotipi, il cyberbullismo, l'uso consapevole di immagini e dati sui social: temi attualissimi sui quali è necessario soffermarsi. Da ottobre gireremo l'Italia nei teatri, invitando le scuole, gli insegnanti, gli studenti e le studentesse a riflettere con noi».

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