La Nice di Oderzo esce da Borsa Italiana: «Penalizzati dal governo»

L’azienda annuncia l’addio al mercato dei capitali in polemica con Lega e 5 Stelle. Il presidente Buoro: «Troppa incertezza politica, gli investitori stranieri fuggono»

ODERZO. La Nice di Oderzo esce da Borsa Italiana sbattendo la porta. L’azienda, produttrice di sistemi di automazione per la casa e con un fatturato di 325 milioni di euro nel 2017, ha annunciato l’uscita dal listino su cui era quotata dal 2006. Ed è un’uscita destinata a fare rumore, perché - prima ancora dei ragionamenti su capitale e dinamiche finanziarie - il presidente Lauro Buoro punta il dito contro la politica economica del governo Lega-Cinque Stelle: «Sta facendo scappare gli investitori stranieri. Siamo in balia dell’incertezza, e all’estero non credono nel nostro Paese. Per questo il mercato azionario sottopesa l’Italia».

la decisione. Tecnicamente si chiama “delisting”, è la scelta di rinunciare alla quotazione in Borsa. Nice, per inciso, in Borsa ci aveva pure guadagnato, chiudendo il 2018 con il segno positivo (più 0,98 per cento nei 12 mesi). Lo scorso 24 dicembre Nice Group ha comunicato agli azionisti «che non intende procedere al ripristino di un flottante sufficiente ad assicurare il regolare andamento delle negoziazioni delle azioni ordinarie». L’azienda avrà quindi l’obbligo di ricomprare tutte le azioni rimaste in circolazione. Il “flottante”, cioè il pacchetto di azioni disponibili per la negoziazione in Borsa, oggi è circa il 12 per cento del capitale di Nice: una quota troppo bassa, che ha sicuramente contribuito alla decisione di rinunciare alla quotazione. L’uscita vera e propria da Piazza Affari si concretizzerà nel giro di qualche mese, il tempo di rispettare i passaggi chiesti da Consob. Di certo, oltre alle invettive del presidente contro il governo, tra i vantaggi dell’uscita dalla Borsa c’è anche lo snellimento delle procedure decisionali. E, più in generale, un accesso al canale bancario a interessi ben più contenuti rispetto a qualche tempo fa.

la protesta. A fare rumore però sono le parole di Buoro, che collega la scelta industriale alle mosse del governo, considerate alla stregua di ostacoli per chi vuole fare impresa. «Il mercato azionario nell’ultimo periodo ha sottopesato l’Italia, soprattutto per quanto riguarda gli investitori stranieri» spiega Lauro Buoro, «e questo avviene per motivi politici, non certo per l’appeal delle nostre imprese. Se siamo in questa situazione la responsabilità è del governo. Gli investitori non credono nel Paese, ed è un problema per un’azienda come la nostra che esporta per il 95 per cento. Non lo ritengono un luogo sicuro su cui investire: nell’ultimo periodo abbiamo assistito alle incertezze sull’approvazione della manovra, la discussione sugli ultimi emendamenti si è protratta fino a domenica, siamo in balia dell’incertezza. E la responsabilità è tutta politica».

Le considerazioni finanziarie? «Eravamo arrivati ad avere un flottante del 12 per cento, così basso ha poco appeal verso gli investitori. Siamo cresciuti a doppia cifra anche quest’anno e siamo molto attivi sul fronte acquisizioni, saremo più snelli così, senza la Borsa». È l’ennesimo capitolo di una storia sempre più complicata, quella tra gli industriali trevigiani (e veneti) e il governo. Una tensione iniziata con l’annuncio del Decreto dignità, che per molti ha comportato l’impossibilità di rinnovare i contratti a termine, e continuata con la manovra finanziaria, contestata per l’eccessivo assistenzialismo e per la mancanza di investimenti a favore della crescita.

Riproduzione riservata © Tribuna di Treviso