Caprarica a Treviso: «Essere principe non garantisce la felicità»
Il giornalista Rai, molto amato dal pubblico è oggi alla Libreria Goldoni con il suo libro

TREVISO. Se c’è una monarchia antichissima che non smette di far parlare di sé, a cominciare dai fenomeni “pop” come le nozze dei reali, questa è la monarchia inglese. Monarchia, costume e cultura dell’Inghliterra. Ne parliamo con Antonio Caprarica, giornalista Rai, per la quale è stato più volte corrispondente dall’estero, che oggi presenta (alle 18.30 Libreria Goldoni di Treviso) il suo ultimo libro: “Royal baby. Vite magnifiche e viziate degli eredi al trono”, nell’ambito della rassegna “Leggere il presente” della quale il nostro giornale è media partner.
La sua conoscenza di lunga data del mondo britannico le aveva permesso di prevedere la Brexit?
«Nessuna persona sensata avrebbe potuto prevedere la Brexit, pur con i rischi che alcuni sondaggi facevano intravvedere. Sondaggi che adesso ci informano che una buona parte del Paese si è pentito di quella scelta (il 53% ora è per il remain)».
Gli eventi della casa reale britannica divengono fenomeni mediatici di portata mondiale. Come possiamo spiegare questo trend?
«Quelle cerimonie sono da un lato eventi leggeri, dall’altro riguardano una forma di potere, la monarchia appunto, sotto la quale vive ancora un terzo della popolazione mondiale».
La ragione del successo è almeno in parte dovuta alla risonanza della monarchia e dei suoi riti in una dimensione che sopravvive alla modernità. Che ne pensa?
«Lo stesso principe Carlo, alla domanda su quale fosse il ruolo della monarchia in Inghilterra, ha replicato che svolgeva la funzione di soap opera di maggior successo del regno».
Nel suo libro le vite dei membri più piccoli delle case reali europee sono analizzate per comprendere meglio queste antiche istituzioni. Esiste contraddizione tra la condizione aristocratica (fondata sul privilegio di nascita) e il mondo delle democrazie liberali (fondate invece, almeno idealmente, sul merito)?
«Esiste una contraddizione profonda e radicale; il mio libro può essere letto come un pamphlet contro la stessa idea monarchica che affida alla “lotteria genetica” il governo dei popoli. Proprio in ragione di questa contraddizione, le monarchie cercano oggi strategie di sopravvivenza: nella società occidentale contemporanea le monarchie devono convincere il popolo di avere una legittimità (essendo venuta ormai meno l’investitura divina del re) e lo fanno presentandosi come la dimensione cerimoniale di una realtà “normale” o “borghese”, simile a quella dei propri sudditi. La “monarchia cerimoniale”, come quella britannica, rassicura il pubblico circa il suo passato e soprattutto il suo futuro».
Lei è stato corrispondente in varie regioni del mondo, dal Medio oriente alla Francia. C’è tra questi un paese in cui non vorrebbe mai essere stato? E quali lezioni l’Italia potrebbe trarre?
«Non ho mai avuto rimpianti per essere andato in nessuno di questi posti, anche se alcuni erano molto pericolosi. L’insegnamento che ne ho tratto, da un punto di vista molto personale, è che non esiste il popolo (russo, francese, inglese, etc.) ma l’essere umano. Tutti i popoli sono composti da esseri umani: tutti abbiamo gli stessi impulsi, bisogni, amori. Questa è la lezione di 35 anni di lavoro, importante anche per l’Italia, segnata da eventi come quello accaduto recentemente su un pullman in Trentino. Certo alcune di queste società ci potrebbero dare lezioni importanti: il mondo inglese o quello americano, ad esempio, ci possono insegnare il valore della storia e della memoria».
Leggendo il suo libro si ha l’impressione che nonostante i loro privilegi, i reali non siano liberi né necessariamente felici. È così?
«Perfetto. Quello che dico nel libro è che l’altra faccia del privilegio è l’infelicità personale. Certo si può osservare che è meglio essere un principe ereditario che un minatore, ma anche l’essere principe non garantisce la felicità».
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