Venturin, l'imprenditore di Treviso sequestrato dalla 'ndrangheta; «Per me e per i miei cari è stato un incubo»

TREVISO. Stefano Venturin non aveva mai visto 400 mila euro in contanti. E quando glieli hanno appoggiati sulla scrivania come offerta per entrare in azienda, ha capito che sarebbero stati un mare di guai, qualsiasi risposta avesse dato. E infatti. È finita con lui e la moglie sequestrati in ufficio, con minacce continue di giorno e di notte, con sinistri riferimenti al figlioletto che, nel 2013, era nato da poco. Oggi Stefano Venturin e la moglie, Maria Giovanna Santolini, vivono a Treviso, la loro città di origine.
Hanno provato - senza riuscirci - a dimenticare i volti, i nomi e soprattutto le parole e i pugni dei Bolognino; oggi hanno aperto una società di cogeneratori di corrente. Erano finiti alla Gs Scaffalature di Galliera Veneta attraverso un percorso articolato. Venturin era socio al 50 per cento di un’azienda di Campagna Lupia (Venezia), la moglie deteneva il 60 per cento della Sama Holding di Camposampiero, acquistata nel 2013 da Nicola Parolin. La Gs all’epoca è in crisi ma ha buone potenzialità, sembra l’occasione giusta per il cambio di rotta. Il pestaggio è datato 2 aprile 2013.
Venturin, cosa ricorda di quei giorni?
«Un inferno. Una sera mi hanno preso e mi hanno sequestrato in un ufficio, erano in tre. Avevano le pistole in mano. Erano i Bolognino, non me li scorderò mai. In particolare Sergio, ma a volte venivano con altre persone mai viste».
Cosa volevano?
«Mi intimavano di fare determinate azioni».
Si può spiegare meglio?
«Volevano la procura delle quote della società di Padova, la Gs Engineering. La mia compagna all’epoca era amministratore e socio».
Dopo il sequestro cos’è successo?
«Dal giorno stesso la mia vita è cambiata. Dalla mattina dopo ho chiuso i cancelli dell’azienda, non li facevo più entrare, ma non è cambiato molto. Anzi. Hanno iniziato a cercarmi loro».
Un passo indietro: ma come sono arrivati i Bolognino alla Gs?
«Noi eravamo soci di De Zanetti al 50 per cento, credo siano entrati tramite lui. Volevano entrare in azienda».
Il primo contatto tra voi e loro?
«Tutto si è scatenato perché si sono presentati con 400 mila euro in contanti da mettere in azienda. Io tutti quei soldi in nero non li accetterei da nessuno, non ho mai nemmeno pensato di accettare una proposta del genere. Sono una persona onesta. E così li ho rimandati indietro. Non li ho accettati e da lì si è scatenato l’inferno. Ho cercato di dimenticare tutto per anni».
Gli altri episodi più gravi?
«Un giorno sono venuti in azienda e mi hanno mandato all’ospedale. Di questo è stato scritto. È cronaca».
E poi?
«Le minacce continue. Avevamo un bambino piccolo, e in quei discorsi tiravano in ballo anche lui. Ho subito tante angherie, soprattutto da Sergio. Non si viveva più. Venivano da soli o accompagnati dagli “scagnozzi”. Erano come delle guardie del corpo, persone mai viste prima che facevano numero e ci intimidivano».
Gli inquirenti scrivono che vivevate in uno stato di perenne soggezione.
«Lo confermo».
Quanto è andato avanti?
«Poco, pochissimo. Una ventina di giorni al massimo e non ce l’ho più fatta. Nessuno avrebbe potuto. E così nel giro di poco ho venduto tutto, ho ceduto tutte le quote di cui eravamo soci, l’azienda l’abbiamo restituita al fallimento e siamo andati a fare altro. Ora ci occupiamo di cogeneratori di corrente, viviamo a Treviso. Era insostenibile perché venivano in azienda e pretendevano di comandare loro. Sembravano disposti a tutto pur di mettere le mani sulla società».
Ora con l’inchiesta e gli arresti credete che sia stata fatta giustizia?
«Sì. A dire il vero non ci speravamo più. Ma la giustizia prima o poi arriva per tutti».
È una storia che volete ancora dimenticare?
«Abbiamo dei figli e ci siamo messi a fare tutt’altro, non vorremmo tornare indietro né esporci troppo. È la prima volta che parliamo di tutto questo. Ma è tutto agli atti, ormai». —
Andrea De Polo
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