Uomini e soprusi di genere, una casa per il cambiamento
Il progetto della coop sociale con sede a Montebelluna si occupa di rieducazione: 70 persone seguite nell'ultimo anno

«Era solo una sberla, non ho fatto niente di male». Negano. All'inizio del percorso obbligatorio imposto dal giudice per estinguere la pena dopo una condanna per aver usato violenza di genere, gli uomini negano. Accade spesso e gli operatori di "Cambiamento Maschile", il servizio realizzato dalla cooperativa sociale "Una casa per l'uomo" in collaborazione con il Comune di Montebelluna lo sanno. Sanno anche, però, che la violenza non viene commessa per colpa di un raptus e che proprio per questo motivo è possibile cambiare definitivamente. Nell'ultimo anno nei tre sportelli della Casa per l'uomo sono transitati circa 70 uomini.
Il percorso di cambiamento
In gergo si chiama Cuav (Centri per Uomini Autori di Violenza) e l'attività prevede la messa a disposizione di servizi che sostengano e accompagnino gli uomini in un percorso di cambiamento, a partire dalla piena assunzione di responsabilità rispetto ai comportamenti agiti e la realizzazione di attività di informazione, formazione e sensibilizzazione rispetto ai temi della violenza di genere e dell'identità maschile. Solitamente il percorso viene svolto in gruppi aperti (durante l'anno alcuni utenti finiscono e altri cominciano) da 15 uomini, alla base di tutto confronto e ascolto, per finire con l'assunzione di responsabilità. Di tutti gli utenti, solo uno è entrato volontariamente, gli altri sono obbligati dal giudice dopo aver commesso reati che rientrano nel cosiddetto codice rosso, disciplinato da una legge del 2019 e che introduce misure più severe e procedure più rapide per contrastare la violenza domestica e di genere. Il giudice o i servizi sociali in seguito al patteggiamento possono obbligare l'autore di violenza a seguire un percorso di recupero.
I numeri
La Casa per l'uomo conta su tre sportelli, oltre a Montebelluna, ci sono quelli di Treviso e di Conegliano. Dal 2015 al 2024 sono stati seguiti 394 uomini, la maggior parte arrivati dopo essere stati in carcere e l'80% per aver commesso violenza domestica che rientra nei reati di codice rosso. Il 74% degli uomini ha commesso violenza fisica, il 78% violenza psicologica, il 17% violenza sessuale, il 16% stalking, l'8% violenza economica. Restano fuori i giovanissimi, quelli che usano il web per fare del male. In generale, si tratta di uomini che hanno agito forme di violenza all'interno di relazioni affettive e che sono stati denunciati dalla vittima, donne protette nelle case rifugio.
L'identikit
«Quella che proponiamo è una modalità rieducativa e risocializzante, non punitiva», spiega Claudia Cappai, psicologa e operatrice del progetto, «è un percorso di tipo psicoeducativo e talvolta è una sostituzione alla realtà detentiva, devono quindi esserci i presupposti, cioè un minimo di assunzione di responsabilità, altrimenti il percorso non parte». Non c'è un identikit preciso di chi commette violenza. Ci sono uomini anziani, sopra i 70 anni, come neomaggiorenni, ci sono persone facoltose e uomini con scarse risorse economiche. Operai, ma anche medici e imprenditori. «La violenza è democratica», sottolinea Cappai, che poi rimarca: «Un tratto comune? Aver subìto un'influenza culturale rispetto alla costruzione del maschile, cioè aver assecondato una serie di stereotipi che sono stati trasmessi culturalmente. Quando non si riesce si genera frustrazione che poi si trasforma in rabbia e, quindi, violenza».
Il raptus non esiste
«Il cambiamento può avvenire perché il raptus non esiste. Prima di agire abbiamo sempre delle alternative alla violenza e quello che andiamo a fare è andare a decostruirla, come vanno decostruiti gli stereotipi. Bisogna far prevenzione, cercare di cambiare i modelli culturali cominciando dai bambini, aiutandoli ad esprimere le proprie emozioni. I ragazzi di oggi vogliono emulare personaggi del web che non sono reali e questo genera frustrazione, alcune ragazzine considerano la gelosia del coetaneo come forma di amore, mentre invece è controllo, una forma subdola di violenza psicologica».
IL FOCUS. Violenza fisica e psicologica: Colpevoli anche per un solo caso
«Schiaffeggiarla, tirarle pugni, afferrarla, darle calci, afferrarla per il collo, strozzarla, spingerla, tirarle i capelli, darle pizzicotti, trattenerla per i vestiti, morderle, sputarle addosso». Ancora: «Usare armi, gettarle addosso oggetti per spaventarla. Maltrattare oggetti, cose di casa, animali domestici, distruggere le sue cose. Intimidirla: stare di fronte alla porta durante un litigio, mostrare espressioni di rabbia, usare la propria mole fisica, stare sopra di lei, uscire sbattendo la porta, guidare in modo rischioso». Tutte queste azioni rientrano nella violenza fisica. Mettere in atto anche solo una di queste significa operare violenza nei confronti di una donna. «Se, per esempio, prendo il telefono e lo getto per terra, ti sto dando un segnale che sono arrabbiata con te ed è come se dicessi: la prossima volta non lancio il telefono per terra, ti do un pugno», spiega in modo pratico la psicologa Claudia Cappai, «la violenza è democraticamente diffusa, anche perché spesso non ci rendiamo conto. Poi c'è anche la sfera della violenza psicologica, la cyberviolenza che non è solo revenge porn, ma investe una serie di comportamenti che spesso diamo per scontati, invece è molto subdola».
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