Il saio sopra la tuta per insegnare calcio, addio a padre Alberto

Giuseppe Ferraro all’anagrafe, era frate minore francescano e allenatore per passione. Per tre decenni a Treviso ha avviato al pallone pulcini ed esordienti, portandoli al campo col pulmino

Andrea Passerini
Giuseppe Ferraro all’anagrafe, era frate minore francescano e allenatore per passione
Giuseppe Ferraro all’anagrafe, era frate minore francescano e allenatore per passione

Metteva il saio sopra la tuta azzurra, e via, sul campo di terra dell’Aurora a insegnare calcio ai bambini. Palude se pioveva, cemento sotto il solleone. L’immagine di padre Alberto che tutti i suoi allievi – tanti, tantissimi, migliaia, almeno due generazioni di trevigiani – hanno rivissuto il primo gennaio, quando in città è arrivata la notizia della scomparsa del mitico frate minore francescano, allenatore dell’Aurora. Ed è scattato un mestissimo tam tam.

Figlio di un casoin del Vicentino, avviato in seminario come allora si usava per l’ultimo figlio, Giuseppe Ferraro (già, l’anagrafe non lo conosce come Alberto) era sbarcato alla Votiva nei primi anni ’60. E subito, per la promozione sportiva negli oratori, aveva messo a disposizione la passione e il patentino (la leggenda dice che poi studiò anche a Coverciano). Non aveva particolari trascorsi agonistici, in gioventù, ma sapeva come rapportarsi con i bambini, mescolando come pochi benevolenza e severità, rigore e bontà.

Per tre decenni, avrebbe avviato al calcio i nati negli anni ’50, 60, 70 e ’80: pulcini ed esordienti (c’era il Nagc, nucleo addestramento giovani calciatori), poi passava i suoi minicalciatori, quando diventavano allievi, ad altri suoi ex atleti divenuti allenatori.

E fu uno dei protagonisti della grandissima saga dell’Aurora di quegli anni: potenza polisportiva, grazie all’intraprendenza del vulcanico parroco don Bruno Sernagiotto, padre spirituale del Vicenza di Pablito Rossi e al sostegno dei primi sponsor. L’Aurora aveva impianti che nemmeno il comune aveva, e presto si impose a livello nazionale non solo nel calcio (prima i vivai erano soprattutto Montebelluna e Conegliano): atletica, basket e volley, pallamano e pattinaggio, fenomeno sportivo ante litteram della provincia.

Leggendarie le sue messe “accorciate” per consentire riscaldamenti e trasferte senza problemi: la tuta, anche sul pulpito spuntava sotto la vesta talare. Il pulmino giallo con cui andava di persona a raccogliere i ragazzini, e poi riportarli a casa dopo l’allenamento. E il suo spirito di servizi cristiano trasferito – eccezionalmente e – ai grandi della prima squadra, condotti ad una memorabile salvezza nelle ultime giornate. Così come perdonava più di qualche cartellino falsificato, per tacer delle bestemmie udite. Per tutti era “Altober”, poi contratto in “Tober”. Aveva anche insegnato religione nelle scuole.

Fra i minicalciatori allenati, Francesco Feltrin, Mazzobel (in A con il Bologna), Spigariol, e poi gli Agnoletto, i Pizzolon, Goldin, Conean, i Valvo, Veschetti, Agressi, Della Pietà, e anche l’attuale sindaco Conte. Lista infinita. Se venivano chiamati ai provini, li accompagnava lui. E i dirigenti? Dal leggendario Carniato, tanti sodalizi inossidabili. E poi il massaggiatore Betteti...

Dopo la Votiva, il servizio in altre regioni d’Italia e l’approdo in Calabria, zona di ndrangheta. Una leggenda dice per “punizione”, ma lui ha sempre glissato. I tanti ex allievi, che lo considerano un secondo padre, lo sono andati sempre a trovare, fino allo scorso mese di ottobre. In Calabria, con coraggio, si era dato da fare per i deboli e gli ultimi. Quest’autunno, il ricovero in ospedale. E a San Silvestro il decesso che ha colto tutti di sorpresa. Il 3 gennaio alle 10 l’addio, nella chiesa del convento di Lonigo

Riproduzione riservata © Tribuna di Treviso