Tre neonati nella ruota degli esposti

Quest’anno si registra un aumento dei piccoli abbandonati alla nascita in ospedale. Storie di donne che non ce la fanno
Di Valentina Calzavara

Partorire in ospedale e decidere di lasciare lì il proprio bambino, senza riconoscerlo. Quest'anno al Ca' Foncello, già tre donne hanno fatto questa scelta. Un dato in aumento rispetto al 2014, quando la cartella dei piccoli “nati esposti” è stata una, due nel 2013.

La “ruota” esiste ancora oggi nell'ospedale trevigiano, come negli altri centri nascita d'Italia, ha la forma di una culla accogliente ed è sempre pronta se una mamma decide di mettere al mondo un figlio partorendo in anonimato. Lo può fare in un luogo sicuro, dove c'è sempre qualcuno che si prenderà cura del neonato, fino all'affidamento a una famiglia adottiva. Il silenzio di quella mamma sarà rispettato, la sua identità protetta, come prevede la normativa.

In ogni caso l'abbandono non è una scelta facile e la ferita della separazione, di quel cordone ombelicale tagliato subito, condizionerà per sempre le vite di madre e nascituro.

Le storie. Ogni storia di abbandono è diversa. Racchiude motivazioni e paure. Passati pesanti e presenti privi di sicurezze economiche o affettive. Timori e solitudine. Qualche volta c'è l'incapacità di abortire la vita che cresce dentro di sé. Altre volte, la voglia di interrompere volontariamente la gravidanza si scontra con la legge che prevede l'aborto entro il termine di 90 giorni.

Il caso di Anna. Dopo essere stata lasciata dal fidanzato, sono passati tre mesi. Un ritardo del ciclo, il sospetto. Si è fatta forza, è andata in farmacia, ha comperato un test di gravidanza e ha sperato. «Quel giorno ho pregato di non essere incinta», racconta. Due strisce blu, il test era positivo. Ha sperato ancora che ci fosse un errore. Si è arresa solo quando il ginecologo le ha detto: «Signora, lei è incinta». La testa vuota e tante lacrime. Era passato troppo tempo per interrompere la gravidanza. Le restava solo una cosa da fare, aspettare i nove mesi. Così ha fatto. Una mattina d'autunno le si sono rotte le acque. È andata all'ospedale, ha partorito e ha deciso. Ha lasciato lì il neonato, dopo averne parlato con il personale,è uscita dal reparto per non tornarci mai più.

La storia di Paola. Lei invece aveva già tre figli quando ha scoperto di attenderne un quarto. Intorno vedeva tante difficoltà, solo lavori saltuari e l'assenza di un marito accanto per crescere insieme i bambini. «I figli sono un dono, ma un'altra bocca da sfamare è impossibile senza un reddito sicuro», ha spiegato. Passavano i mesi, la pancia cresceva, così come i pensieri e il rimorso per dover lasciare quel figlio, non atteso, ma comunque amato, fin dal primo istante. Anche lei ha partorito al Ca' Foncello. Il suo distacco però è stato sofferto. Straziante separarsi dal suo «cucciolo» salvo poi consolarsi, con il pensiero «che starà bene e starà in una famiglia che non gli farà mancare l'amore». Dopo qualche settimana dall'addio Paola ha chiamato in reparto, per sapere. «Va tutto bene» le rispondono.

Cosa succede dopo. I nomi per i figli di Anna e Paola sono stati scelti dai dipendenti degli uffici comunali. Il cognome invece è sempre fittizio e viene modificato una volta che c'è l'adozione. «Con un colloquio spieghiamo a queste mamme che la legge prevedere 10 giorni prima della denuncia di nascita e che poi c'è tempo ancora un mese per sospendere l'iter di adottabilità», spiega Mery Bottarel, vicepresidente del Collegio Interprovinciale delle Ostetriche, «fino all'ultimo lasciamo a queste donne la porta aperta, per ritornare sui propri passi. Difficilmente accade». Non si può condannare. «Sono dinamiche molto intime», conclude Bottarel, «ma bisognerebbe che la possibilità del parto in anonimato fosse più conosciuta. Sentire che oggi ci sono ancora bambini abbandonati in un cassonetto fa male. Tutte le mamme devono sapere che il parto in ospedale è un loro diritto. Niente differenze, nessun giudizio».

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